Negli ultimi anni la stampa 3D si è rivelata qualcosa di più di un passatempo per ‘nerd’, sconfinando nell’ambito della medicina e giungendo a rivoluzionare il settore dei trapianti. Tuttavia, lo studio clinico pubblicato lo scorso 22 giugno sulla rivista Nature Biomedical Engineering, che porta la firma di un gruppo di ricercatori del VIMM (Istituto Veneto di Medicina Molecolare) e dell’Università di Padova, ha fatto compiere un ulteriore balzo evolutivo a questa tecnologia, proiettando l’attenzione non tanto sulle moderne macchine per la stampa quanto sugli inchiostri da esse impiegati.
La sinapsi artificiale bioibrida in grado di interfacciarsi con le cellule neuronali è un traguardo che amplia gli orizzonti di ricerca verso la connessione uomo-macchina e aggiunge un tassello tra gli strumenti a disposizione per la cura delle malattie neurodegenerative. Le future tecnologie derivanti da questo studio potrebbero funzionare rispondendo direttamente ai segnali chimici del cervello. Lo sviluppo di interfacce cervello-computer efficienti, basate su sinapsi artificiali in grado di “imparare” e interagire con i neuroni, aumenta ancora di più le aspettative nei confronti delle possibili applicazioni. Questa ricerca è però ancora agli albori e l’obiettivo era quello di farlo funzionare in vitro, cosa che è andata a buon fine.
Durante questi mesi di pandemia abbiamo imparato che quando un virus entra in contatto con l’organismo umano, questo in tutta risposta genera anticorpi per neutralizzarlo. È una strategia di difesa che viene mantenuta anche quando si tratta di virus resi innocui e svuotati, che sono usati come vettori nella terapia genica. Un limite che un team di ricercatori del centro di ricerche Genethon in Francia e della biotech statunitense Spark Therapeutics ha cercato di risolvere usando un’arma in grado di neutralizzare gli anticorpi diretti contro i virus adeno-associati (AAV), vettori usati in strategie di terapia genica per diverse malattie. Lo studio è stato pubblicato su Nature Medicine lo scorso 1 giugno.
Sembra non esaurirsi l’elenco di potenziali terapie contro il virus SARS-CoV-2: dopo i farmaci antivirali e gli anticorpi monoclonali è salita in scena l’idrossiclorochina, un antimalarico protagonista di innumerevoli discussioni sulle pagine dei giornali. Adesso sembra essere il turno del desametasone quale possibile terapia efficace contro il COVID-19, tuttavia, non c’è dubbio che il fulcro della lotta a questa pandemia sia la messa a punto di un vaccino. Un tema di bruciante attualità che l’Osservatorio Terapie Avanzate aveva trattato a fine aprile, illustrando il vaccino genetico che nasceva da una collaborazione italo-inglese, e su cui oggi ritorna con un aggiornamento visto che si tratta del vaccino sul quale stanno scommettendo diversi Paesi europei tra cui l’Italia.
Diventare qualsiasi cellula specializzata del corpo umano è una delle caratteristiche delle cellule staminali pluripotenti (PSC) e anche il loro maggior vantaggio quando si parla di medicina rigenerativa, quella branca della medicina che mira a riparare o sostituire, tessuti o organi danneggiati. Uno dei problemi incontrati finora, però, è che le cellule staminali pluripotenti possono facilmente andare incontro a danno del DNA, portando a mutazioni genetiche e potenziali rischi per chi è destinato a ricevere la terapia. Per rendere l’approccio più sicuro, un gruppo di ricercatori dell'Università di Sheffield (Regno Unito) ha sviluppato un sistema, pubblicato lo scorso 9 giugno su Stem Cell Report.
Il danno cerebrale ipossico/ischemico è una condizione patologica simile all’ictus che si presenta nei neonati nel periodo perinatale e neonatale e costituisce uno dei principali fattori di rischio per mortalità e morbidità. Si verifica in 2-4 neonati su 1000 e, nonostante l’utilizzo – in alcuni casi – dell’ipotermia terapeutica, l'80% dei neonati asfissiati sviluppa segni neurologici di cui il 10%-20% rimane significativamente compromesso (ad esempio, paralisi cerebrale, disabilità mentale e motoria, epilessia). Senza tecniche di prevenzione o di cura, è stata a lungo considerata una condizione candidata alle terapie a base di cellule staminali. Studi preclinici su modelli murini sostengono la possibile applicazione delle cellule staminali neurali umane per questa condizione e, grazie alla risonanza magnetica, si potrebbero identificare le lesioni trattabili, evitando terapie inutili.
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