Di Marco

Come per la terapia genica, anche per i vaccini l’utilizzo di vettori virali per veicolare il DNA può rivelarsi la chiave di volta. Lo spiega Stefania Di Marco, direttore scientifico di Advent-IRBM.

Chi avrebbe mai potuto pensare che la risposta preventiva più concreta contro un virus sarebbe potuta giungere proprio da un altro virus? Eppure è proprio così perché nel percorso di sviluppo di un vaccino contro il Coronavirus che sta mettendo in ginocchio il mondo intero, l’asso nella manica dei ricercatori potrebbe essere proprio un virus. La strategia si basa sull’utilizzo di un adenovirus per veicolare all’interno dell’organismo un gene in grado di innescare il processo di immunizzazione contro SARS-CoV-2. Una strategia che richiama alla mente quella utilizzata nella terapia genica. Ed è con una punta di orgoglio che annotiamo una partecipazione italiana alla realizzazione di questo vaccino genetico che, come comunicato dallo stesso amministratore delegato di IRBM Science Park, Piero di Lorenzo, inizierà la sperimentazione sull’uomo proprio a fine aprile.

A spiegare con maggior dettaglio come è stato realizzato è la dott.ssa Stefania Di Marco, direttore scientifico di Advent, società che fa parte del gruppo IRBM di Pomezia che ha già messo a punto un vaccino tutto italiano contro il virus Ebola.

VACCINI “CLASSICI” E VACCINI GENETICI

Per vaccino si intende uno strumento di prevenzione nei confronti di varie patologie che, nella sua forma più classica, è costituito da virus o batteri inattivati oppure attenuati, in grado di suscitare una reazione da parte del sistema immunitario. Nel primo caso si tratta di organismi morti (che quindi non possono provocare malattia), nel secondo di organismi resi innocui (analogamente incapaci di suscitare malattia) ma modificati per provocare una risposta che, generalmente, consiste nella produzione di anticorpi. “Un vaccino genetico, invece, è in grado di indurre una risposta sia anticorpale che cellulare”, spiega Di Marco. “Per sconfiggere i patogeni il sistema immunitario deve produrre sia gli anticorpi contro di esso che le cellule, specie i linfociti CD4 e CD8 per aggredirlo”. Il classico esempio di un vaccino genetico può essere rappresentato da un semplice frammento di DNA che codifica per una proteina di superficie del patogeno. L’ostacolo più consistente è riuscire a farlo entrare all’interno della cellula perché, come è noto, difficilmente il DNA oltrepassa la membrana cellulare.

LA SCELTA DI ADVENT E IRBM

Utilizzare un virus come cavallo di Troia per veicolare all’interno dell’organismo un gene in grado di innescare il processo di immunizzazione contro SARS-CoV-2. Una strategia che ricorda molto da vicino quella utilizzata nella terapia genica. “Un virus può rappresentare un ottimo vettore per il DNA”, precisa Di Marco. “In tutto il mondo c’è una profonda enfasi relativa all’uso di virus opportunamente modificati e inattivati da utilizzare come vaccini genetici dal momento che all’interno del vettore virale può essere inserito un pezzo di DNA che corrisponde alla proteina del patogeno contro cui si vuole vaccinare l’individuo. Così, tramite i suoi specifici recettori il vaccino virale entra e può attivare tutto il sistema immunitario, generando una efficace risposta anticorpale e cellulare contro l’aggressore”. Ciò che sembra scorrevole sulla carta non è altrettanto facile da realizzare nella pratica di tutti i giorni.

“Da anni Advent, il comparto di IRBM specificamente dedicato allo sviluppo di vaccini, si è focalizzato sull’uso di adenovirus quali vettori per vaccini genetici contro diverse patologie”, continua l’esperta. Gli adenovirus sono virus a DNA di piccole dimensioni, facili da manipolare in laboratorio e che non si integrano nel genoma umano. Per questo costituiscono delle piattaforme perfette per lo sviluppo di vaccini. “Quello che Advent ha sviluppato sfrutta un adenovirus derivato da uno scimpanzé reso innocuo privandolo del gene responsabile della replicazione (E1), al posto del quale viene inserito il gene corrispondente alla proteina “arpione” del virus SARS-CoV-2 contro il quale si sviluppa il vaccino”, precisa Di Marco. “In tal modo l’adenovirus non è più in grado di replicare. A questo punto, per produrlo in gran quantità, si ricorre a linee cellulari nelle quali il gene E1 è presente e complementa il gene mancante”.

Va precisato che in questa fase di produzione è necessario un aumento solo delle molecole di virus integre contenenti il pezzo di DNA della proteina arpione; ciò diventa possibile sfruttando l’apparato di replicazione della linea cellulare. In questa fase, dunque, non può essere espresso il gene della proteina arpione. “Il sistema deve essere forzato a produrre solo le molecole di virus, per disporre di un numero sufficientemente alto nella fase successiva”, spiega ancora Di Marco. “Più se ne produce in questa fase e più si determinerà un abbassamento dei costi dell’intero processo di manifattura. Al termine della fase di crescita, nella quale è cresciuto il volume della massa di cellule, occorre separare gli adenovirus che portano il pezzo di DNA della proteina arpione dagli altri componenti cellulari e ciò si realizza raccogliendo le cellule e lisandole in unica soluzione che sarà fatta passare attraverso una colonna cromatografica capace di trattenere gli adenovirus e lasciar passare invece tutto il resto. È la fase di purificazione, al termine della quale si ottiene l’adenovirus che sarà ulteriormente sottoposto a sterilizzazione e filtrazione per liberarlo da ulteriori eventuali batteri e microrganismi”. Il preparato finale è una soluzione liquida e sterile, somministrabile tramite iniezione intramuscolo.

LA COLLABORAZIONE CON L’UNIVERSITÀ DI OXFORD

Allo Jenner Institute della Oxford University sono già stati eseguiti i primi test di tossicità sugli animali per poter procedere più speditamente nell’iter di messa a punto e sviluppo del vaccino e i test sui primi 550 volontari sani dovrebbero iniziare a fine aprile in Inghilterra. “Gli adenovirus rappresentano una piattaforma già collaudata in pazienti adulti e bambini senza reazioni avverse”, riprende l’esperta. “Tuttavia, sebbene il vettore sia già stato testato sia sugli animali che sull’uomo, dal momento che porta al suo interno un pezzo di DNA nuovo, rappresenta di fatto una molecola nuova che deve essere di nuovo sottoposta ai test di sicurezza e di immunogenicità. Nelle nostre officine di produzione sono stati eseguiti vari test per essere certi che il preparato sia libero da contaminanti o da altri virus e, solo una volta accertata la sua sterilità, si entra nella fase di rilascio del lotto clinico per la sperimentazione sull’uomo”.

IL VIA ALLA SPERIMENTAZIONE SULL’UOMO

La dichiarazione di Piero di Lorenzo, AD di IRBM, è stata da tutti percepita come un’iniezione di ottimismo perché potrebbe collocare “già a settembre l’uso in modalità di uso compassionevole del vaccino nel personale sanitario e tra le Forze dell’Ordine”. Nelle prime fasi è, dunque, presumibile che le poche dosi disponibili siano destinate agli operatori sanitari e alle categorie a rischio, poi la produzione su grande scala dovrebbe renderlo disponibile a tutti entro il prossimo anno.

“Non va dimenticato che è in corso una costante opera di condivisione dei dati da parte di tutti gli scienziati che stanno facendo ricerca”, afferma Di Marco. “Il numero degli studi clinici sui vaccini, e anche sulle possibili terapie contro il virus SARS-CoV-2, aumenta di giorno in giorno. Sono diverse le aziende farmaceutiche che stanno lavorando su un modello di vaccino, sia del tipo ‘classico’ che di tipo ‘genetico’ e questo da una parte conferma il fervore e l’impegno del mondo scientifico, dall’altra parte ricorda come il vaccino che sarà somministrato debba essere prima di tutto sicuro perché destinato ad un’amplissima fetta di popolazione”. Il profilo ideale è, dunque, quello di una formulazione altamente immunogenica, quindi ad elevata sicurezza oltre che efficacia. “Non è detto che si tratti di un solo vaccino. Potrebbe essercene più di uno”, conclude Di Marco. “Ognuno dei quali avrà dei vantaggi e degli svantaggi. Il nostro vaccino, ad esempio, è un prodotto liquido congelato e deve essere mantenuto sterile a basse temperature. Ciò potrebbe essere considerato uno svantaggio, specie in certe regioni dell'Africa e del Sud-Est Asiatico. Ma l’analisi costo-beneficio che abbiamo condotto è molto buona perché le piattaforme che sfruttano gli adenovirus hanno costi più che ragionevoli. Tutto ciò fa ben sperare ma quello che serve più di ogni altra cosa è continuare a fare ricerca su questi temi e non fermarsi perché negli ultimi vent’anni l’umanità ha fatto i conti con tre Coronavirus. Non sono pochi e per il futuro occorre essere maggiormente pronti”.

Con il contributo incondizionato di

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