Antonella Viola

Grazie alla prof.ssa Antonella Viola (Padova) facciamo chiarezza sulla risposta immunitaria al virus SARS-CoV-2, ricordando che le nostre difese non consistono solo negli anticorpi

Che cosa significa essere ammalati di COVID-19? Parole come “polmonite interstiziale bilaterale” e “tromboembolia” per qualcuno rappresentano una risposta esaustiva mentre altri pensano che la febbre e la perdita del senso del gusto (ageusia), spesso associata alla perdita dell’olfatto (o anosmia), bastino a spiegare i sintomi della patologia suscitata dal nuovo Coronavirus. Ciononostante, queste sono solo tracce superficiali di una battaglia che si combatte in profondità e coinvolge il sistema immunitario, con entrambe le sue linee di difesa, la risposta immunitaria umorale e quella cellulare.

L’immunologia è una materia complessa e sarebbe un grosso errore ridurre lo scontro tra il virus SARS-CoV-2 e il nostro sistema immunitario alla mera produzione di anticorpi. C’è in ballo molto di più per cui, insieme a Antonella Viola - Professoressa Ordinaria di Patologia Generale presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova, Direttore Scientifico dell’Istituto di Ricerca Pediatrica ”Città della Speranza” - abbiamo deciso di fare chiarezza sulla funzione dell’immunità delle cellule T che, parafrasando il celebre album dei Pink Floyd potremmo ribattezzare “il lato oscuro dell’immunità”. Soprattutto perché, fino ad ora, è stato un argomento molto meno discusso rispetto al ruolo degli anticorpi.

IMMUNITA’ UMORALE E CELLULARE

Prima di parlare di immunità delle cellule T occorre però capire in che cosa consista la risposta immunitaria. “In un contesto di infezione da virus, come nel caso del SARS-CoV-2, l’immunità umorale e cellulare giocano ruoli non trascurabili”, spiega la prof.ssa Viola, anche membro del comitato scientifico di Osservatorio Terapie Avanzate. “L’immunità umorale consiste nell’attivazione dei linfociti B che, divenuti plasmacellule, hanno il compito di produrre grandi quantità di anticorpi. Nel contesto delle infezioni virali gli anticorpi più importanti sono i cosiddetti ‘anticorpi neutralizzanti’, cioè quelli che si legano alle proteine che il virus sfrutta per entrare nelle nostre cellule. L’immunità umorale che si mantiene nel tempo, con un titolo anticorpale alto, viene definita ‘immunità sterilizzante’ dal momento che ci permette di evitare una seconda infezione, in quanto il virus viene bloccato dagli anticorpi neutralizzanti. Infatti, questo è un tipo di immunità altamente protettiva e che i ricercatori cercano di ottenere tramite lo sviluppo di vaccini”.

L’immunità cellulare protettiva consiste, invece, nella produzione di linfociti capaci di uccidere le cellule infettate dai virus. “I virus per poter proliferare devono entrare nelle cellule del nostro corpo e sfruttarne le componenti per replicarsi”, spiega ancora Viola. “Fortunatamente, i linfociti T citotossici sono in grado di riconoscere le cellule infettate dai virus e ucciderle, impedendo così al virus di replicarsi.”

COME FUNZIONA L’IMMUNITA’ CELLULARE

Una ricerca condotta dal Karolinska Institutet e dal Karolinska University Hospital di Stoccolma, e pubblicata lo scorso giugno in preprint su bioRxiv, ha messo in evidenza come molte persone colpite dal virus SARS-CoV-2 abbiano sviluppato un’immunità mediata dalle cellule T anche a fronte dell’assenza di anticorpi specifici contro il virus. “Nel caso di COVID-19, si sviluppano entrambe le risposte immunitarie”, precisa Antonella Viola. “Si attivano i linfociti CD8 citotossici e anche i linfociti CD4, che servono a produrre le citochine e a modulare l’attività delle altre cellule. Infine, si producono gli anticorpi specifici contro il virus”. Le sigle CD4 e CD8 definiscono due recettori espressi sulla superficie delle cellule T che le aiutano a riconoscere le cellule da eliminare. CD8 è espresso sulle cellule T citotossiche che, in tal modo, aggrediscono le cellule nucleate dotate di peptidi estranei mentre CD4 è espresso sulle cellule T helper che così possono orientarsi verso le cellule dendritiche, i macrofagi e le cellule B.

Insomma, poter definire le funzioni delle popolazioni CD4 e CD8 è importante per capire il livello di protezione del nostro sistema immunitario che si avvale di molteplici sistemi per arginare l’invasione dei virus. “Un altro aspetto che i ricercatori stanno cercando di comprendere è quanto a lungo si conservi nel tempo la risposta cellulare”, spiega la professoressa padovana. “Infatti, è ormai chiaro che la risposta anticorpale non si mantiene a lungo visto che nel giro di 3-4 mesi è stata osservata in molti pazienti una forte riduzione degli anticorpi circolanti. Se l’infezione è però in grado di generare dei linfociti della memoria, che vivono a lungo, potremmo sperare di essere protetti a lungo”. Purtroppo, è prematuro pensare a test diagnostici rapidi basati sul riconoscimento di queste popolazioni cellulari: si tratta, infatti, di un meccanismo complesso la cui applicazione in fase diagnostica è, al momento, impensabile sia per i costi suscitati che per le tempistiche di analisi richieste.

SARS-CoV-2: IL CAMPO DI GIOCO

Tuttavia, approfondirne lo studio è fondamentale per comprendere cosa accade al nostro organismo quando il virus penetra all’interno dell’epitelio respiratorio (e di quello intestinale). “Il virus comincia a replicarsi e ad indurre la morte delle cellule epiteliali anche per piroptosi”, precisa Viola. Con questo termine indichiamo un processo di morte cellulare associata alla produzione di Interleuchina-1 beta (IL-1beta) e Interleuchina-18 (IL-18) – due citochine prodotte dal sistema immunitario - fortemente infiammatorie e capaci di acuire lo stato di infiammazione legato all’entrata del virus. “A questo punto, per ragioni che non comprendiamo ancora a pieno, si generano due quadri diversi”, aggiunge Viola. “In alcuni pazienti l’infiammazione porta al reclutamento delle cellule T CD4 e CD8, alla produzione di anticorpi neutralizzanti e, quindi, ad una risposta protettiva. In questo caso i linfociti citotossici, gli anticorpi neutralizzanti e i macrofagi collaborano per eliminare il virus e il paziente va incontro a guarigione. In altri pazienti, al contrario, prevale un infiltrato di tipo neutrofilico e i linfociti CD4 cominciano a produrre citochine le quali, anziché sostenere la risposta immunitaria, amplificano l’infiammazione. In questo caso le cellule CD4 e CD8 vanno incontro a un processo di esaurimento e cominciano a esprimere sulla loro superficie molecole che ne bloccano la funzionalità. Questo si verifica soprattutto nei pazienti più anziani che invece di guarire si ammalano sempre di più”. Perciò i ricercatori di tutto il mondo si stanno impegnando nello studio dei meccanismi dell’immunità in risposta all’infezione da SARS-CoV-2: intervenire ad uno di questi livelli potrebbe significare trovare una terapia efficace per la malattia.

IL RUOLO DELL’INTERFERONE

“Due studi molto interessanti sono stati pubblicati poche settimane fa sulle pagine della rivista Science e hanno evidenziato un’alterazione della risposta dell’Interferone di tipo 1 (IFN-1) nei pazienti più gravi”, sottolinea Antonella Viola. “Uno studio ha confermato una predisposizione ad un difetto nella via di segnalazione cellulare che porta alla risposta con IFN-1, l’altro ha rilevato la presenza di anticorpi anti-interferone che potrebbero bloccare l’azione dell’interferone stesso. Sembra quasi un meccanismo autoimmune che blocca la protezione nei confronti del virus”. Infatti, gli interferoni appartengono alla classe delle citochine infiammatorie coinvolte nella risposta immunitaria. Inoltre, il fatto che questi anticorpi siano stati trovati in maniera prevalente negli uomini rispetto alle donne contribuisce a spiegare le differenze in termini epidemiologici a cui il virus ci sta abituando.

“In un altro studio pubblicato sulla rivista Nature Medicine sono state poste a confronto le cellule prelevate tramite la procedura di bronco-lavaggio alveolare (BAL) dei pazienti colpiti da COVID-19 con quelle dei pazienti affetti da altre polmoniti, sia batteriche che virali”, prosegue l’esperta. “Ne è emerso che esiste una forte differenza nelle quantità di citochine infiammatorie e delle molecole coinvolte nell’infiammazione. SARS-CoV-2 è un virus capace di indurre un’alterazione profonda della risposta immunitaria proprio a causa dell’intensa produzione di molecole infiammatorie”. Se tutto ciò si aggiunge ai risultarti dei due studi pubblicati insieme su Science si comincia a spiegare meglio ciò che abbiamo visto accadere nei mesi scorsi e che ha portato all’intasamento del Servizio Sanitario Nazionale e alla morte di oltre 35 mila persone solo in Italia. “Il fatto che le citochine infiammatorie rilasciate siano così tante fa sì che l’immunità cellulare non sia efficace e si inibisca la risposta protettiva”, aggiunge Viola. “Infatti, in molti pazienti è stato osservato un deficit di linfociti CD8 citotossici che, letteralmente, spariscono dal sangue periferico. Un nostro studio, i cui risultati sono in attesa di pubblicazione, mostra chiaramente che questo accade in relazione all’età. Nei pazienti con sintomatologia severa, e con più di 60 anni, c’è un grosso calo di questi linfociti che dovrebbero essere quelli che conferiscono l’immunità cellulare, mentre nei giovani questo calo non si verifica”.

PASSI AVANTI E VACCINI

L’indicazione dell’immunità conferita dalla cellule T è un vantaggio nella corsa alla preparazione dei vaccini perché la risposta anticorpale non basta a proteggerci. La sincronia tra la risposta umorale e quella cellulare possono conferirci la miglior protezione possibile, ma c’è chi ha anche pensato che altre vaccinazioni - come quella influenzale - possano prevenire la COVID-19. “Purtroppo non vi è alcuna dimostrazione che la vaccinazione antinfluenzale e quella anti-pneumococcica possano prevenire la COVID-19”, conclude Viola. “È vero che i vaccini stimolano la risposta immunitaria mantenendo allenato il sistema immunitario (in questo caso soprattutto la risposta innata) ma che possano dare anche protezione contro COVID-19 rimane ancora un’ipotesi. Ad ogni buon conto, la vaccinazione anti-influenzale serve a proteggere le categorie a rischio ed è fortemente raccomandata anche per prevenire il sovraccarico del sistema sanitario visto che i sintomi di COVID-19 e dell’influenza sono gli stessi. Infine, una buona notizia che ci fa ben sperare è che in Australia, dove l’influenza arriva prima, a fine agosto sono stati registrati poco più di 20 mila casi, a fronte dei circa 220 mila degli anni scorsi. Evidentemente l’uso della mascherina, il mantenimento delle distanze sociali e l’igienizzazione della mani ha fatto si che anche l’influenza circolasse di meno quest’anno. È inoltre possibile che abbia avuto un impatto il maggiore uso del vaccino anti-influenzale”. Un dato che conferma la bontà delle poche - ma fondamentali - regole per combattere questo maledetto Coronavirus.

 

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