Terapia genica

Punti di forza e debolezze delle diverse tecniche e strategie utilizzate. Inoltre, un elenco (destinato ad aumentare) di patologie contro cui la terapia genica ha ottenuto successi concreti

Tra i risultati degli innumerevoli studi clinici accumulatisi sulle riviste scientifiche nel corso degli anni e la sfilza di nuove Autorizzazioni all’Immissione in Commercio (AIC) da parte degli enti regolatori statunitensi ed europei, può risultare difficile fare il punto sui traguardi tagliati dalla terapia genica. Per questo motivo è utile, e decisamente interessante, il lavoro di sintesi – sui processi di raccolta delle cellule, dei vettori virali e dei diversi approcci usati - e di puntualizzazione dei concetti chiave consentito da revisioni sistematiche come quello pubblicato lo scorso dicembre sulla rivista Nature Reviews Genetics dal prof. Alessandro Aiuti del SR-Tiget.

Professore ordinario di Pediatria presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e vicedirettore della Ricerca Clinica dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano (SR-Tiget), Aiuti - anche membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Terapie Avanzate - ha dedicato molti anni della sua carriera allo studio delle cellule staminali ematopoietiche e allo sviluppo di una terapia genica contro alcune immunodeficienze tra cui l’ADA-SCID e la sindrome di Wiskott-Aldrich. Insieme alla prof.ssa Giuliana Ferrari e al prof. Adrian J. Thrasher - coautori della review – il prof. Aiuti ricorda come solo 52 anni fa sia stato realizzato il primo trapianto allogenico di cellule staminali per il trattamento del deficit della catena gamma (conosciuto anche come immunodeficienza SCID-X1) e della sindrome di Wiskott-Aldrich. Da allora sono stati compiuti enormi balzi avanti che hanno portato a guardare nella direzione delle cellule staminali ematopoietiche (e dei loro progenitori) ottenute dal paziente stesso (autologhe). Infatti, il maggiore limite delle procedure allogeniche è legato alla scarsa compatibilità dei donatori e al conseguente rischio di sviluppare la malattia da rigetto (GVHD). Il ricorso alle cellule autologhe si è accompagnato allo studio dei vettori virali conducendo, negli anni, all’approvazione di terapie geniche quali Strimvelis e Zynteglo. Una straordinaria corsa che ha preso il via all’inizio degli anni ’80 con lo sviluppo dei vettori virali ricombinanti e che ha portato ai primi trial clinici nell’arco di una decina d’anni.

Infatti, la giusta scelta dei vettori virali da usare ha permesso di superare molti ostacoli. I gammaretrovirus e i lentivirus (tra cui l’HIV) sono stati tra le prime opzioni e i vettori lentivirali, in particolare, hanno mostrato fin da subito un buon profilo di sicurezza per lo sviluppo di terapie geniche ex vivo basate sulle cellule staminali ematopoietiche, riuscendo a integrarsi in maniera più mirata nel genoma. Va ricordato che uno degli effetti collaterali della terapia genica con questi tipi di vettori, su cui i ricercatori hanno sempre posto grande attenzione, è proprio quella dell’integrazione casuale del materiale genico, col rischio di provocare l’attivazione di geni che inneschino il cancro o la modifica di altri geni necessari alla sopravvivenza dell’organismo. Nel caso della sindrome di Wiskott-Aldrich una prima forma di terapia genica basata su vettori gammaretrovirali si è dimostrata funzionante nel correggere il difetto all’origine della malattia ma sostanzialmente pericolosa poiché l’integrazione del vettore virale suscitò la leucemia in alcuni pazienti. Per questo i ricercatori hanno successivamente scelto un vettore a base di lentivirus e, usando la tecnologia di editing genomico CRISPR-Cas9, hanno apportato la correzione del gene WAS nelle cellule staminali ematopoietiche, ottenendo una terapia efficace e soprattutto sicura.

L’individuazione del vettore virale non è l’unico nodo della terapia genica ex vivo. Il successo del trattamento dipende anche dalle condizioni del paziente, dal corretto regime di condizionamento, dalla capacità di attecchimento delle cellule trapiantate e dell’approccio usato. Per la precisione, con quest’ultimo punto si fa riferimento agli strumenti con cui introdurre una rottura nella doppia elica: oltre alle già citate forbici molecolari rappresentate da CRISPR-Cas9, esistono le nucleasi a dita di zinco (ZFN) e le proteine TALEN. Fatto ciò, il DNA deve ripararsi e lo fa in due modi: attraverso la ricombinazione omologa (HR, che necessita però di una copia del DNA danneggiato) o tramite la giunzione non omologa delle estremità (NHEJ) che implica la possibilità di maggiori errori ma permette di inserire o togliere alcuni nucleotidi, favorendo così una riparazione dell’errore originale. Su queste basi i ricercatori hanno messo a punto alcuni importanti protocolli di terapia genica rivolti a patologie come le emoglobinopatie.

Beta-talassemia e anemia falciforme si sono rivelate il tavolo di studio ideale per strategie che sfruttino entrambe le filosofie ma la lista di possibili patologie trattabili con la terapia genica è andata allungandosi via via che gli scienziati hanno approfondito la conoscenza del materiale genetico, delle tecniche di manipolazione e coltivazione delle cellule staminali e delle proprietà dei vettori virali da impiegare. Così sono state sviluppate terapie geniche per alcune forme di immunodeficienza come quella dell’ADA-SCID. O per certe forme di mucopolisaccaridosi per cui il trapianto di cellule staminali ematopoietiche ha costituito una svolta. Successi importanti sono stati raggiunti anche nella terapia dell’adrenoleucodistrofia legata all’X (specialmente, della forma cerebrale) e della leucodistrofia metacromatica per cui l’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC) in Europa è arrivata un mese fa.

Guardando a quello che è stato possibile ottenere in poco meno di trent’anni non si può non essere fiduciosi nei confronti dei prossimi obiettivi che comprendono patologie autoimmuni, malattie neurodegnerative o alcune forme di cancro. Sebbene la via verso la vetta sia stata aperta, è ancora necessario trovare alcuni solidi appigli per l’ascesa che includono, ad esempio, la messa a punto di saggi in grado di valutare direttamente e in maniera efficiente il livello di trasduzione delle cellule trapiantate. Inoltre, occorre identificare nuovi farmaci (gli anticorpi monoclonali anti-CD117 o -CD45 sono un esempio) per integrare i regimi di condizionamento e studiare modalità efficaci di crioconservazione delle cellule per migliorare la logistica di somministrazione e favorire così l’invio del materiale dalle officine produttive ai centri clinici sul territorio. Infine, anche una volta entrati in sviluppo clinico è fondamentale continuare a lavorare sulla ricerca di base per affinare le tecniche di correzione del DNA in maniera tale che siano sempre più sicure minimizzando i rischi di genotossicità. Gli ostacoli sul cammino non mancano ma la possibilità di manipolare le cellule staminali ha dato l’abbrivio a un nuovo campo della medicina le cui ripercussioni si sentiranno sempre più negli anni a venire.

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