Due case report pubblicati su The New England Journal of Medicine esaminano a fondo la questione, che va affrontata con lungimiranza
A una lettura superficiale potrebbe sembrare una notizia di quelle capaci di scuotere dalle fondamenta il castello della più promettente terapia avanzata giunta sul mercato negli ultimi anni. Numerosissimi elementi sono ancora in fase di valutazione per cui vale la regola d’oro della prudenza nelle affermazioni, soprattutto per rispetto dei tanti pazienti che hanno già ricevuto il trattamento e sono nelle fasi di monitoraggio da parte dei medici. Ma è impossibile ignorare come anche il New England Journal of Medicine, una delle più autorevoli riviste scientifiche di medicina, abbia dedicato ampio spazio all’indagine sul rischio che le terapie a base di cellule CAR-T possano essere causa dell’insorgenza di nuovi tumori nei pazienti a cui sono state somministrate. Tematica che OTA aveva già affrontato all’inizio dell’anno.
DALLA SINDROME DA RILASCIO DELLE CITOCHINE AI SECONDI TUMORI
Come tutti i trattamenti - dai più classici, fra cui gli antibiotici, fino ai più avanzati come la terapia genica - anche le CAR-T possono essere causa di insorgenza di effetti collaterali: la sindrome da rilascio delle citochine (CRS) e gli episodi di tossicità neurologica sono quelli più comunemente riportati fin dalle prime fasi di sperimentazione di questo genere di trattamento. Come ben illustrato nel primo volume del progetto “Cell Therapy Open Source” le cellule CAR-T vengono prodotte a partire dai linfociti T prelevati dal paziente che sono poi sottoposti a un elaborato processo di manipolazione genetica, in modo tale da esprimere il recettore CAR grazie a cui acquisiscono la capacità di riconoscere e attaccare le cellule tumorali.
Sotto il cofano delle CAR-T si cela dunque un potente (e nuovo) meccanismo di ingegnerizzazione che, per quanto efficace, necessita di controlli a lungo termine: negli ultimi dieci anni il processo di produzione delle cellule si è affinato, consentendo di immaginare la realizzazione di officine produttive interne ai centri di prelievo ed erogazione delle cellule, in maniera tale da ridurre i tempi di attesa del trattamento. Nel frattempo, la ricerca scientifica ha allungato l’elenco di antigeni potenzialmente oggetto di bersaglio, portando alla realizzazione - e poi approvazione - di nuove CAR-T (potete trovare la lista completa qui) , come quelle contro il mieloma multiplo. Infine, la gestione degli effetti collaterali - soprattutto la CRS - è migliorata in maniera sensibile grazie al perfezionamento dei protocolli terapeutici e all’impiego degli anticorpi monoclonali.
Tuttavia, alla fine dello scorso mese di gennaio, la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha annunciato l’avvio di un’indagine sulla possibile correlazione tra la somministrazione delle CAR-T e l’insorgenza di secondi tumori nei malati. Tale procedimento è stato rivolto all’intera gamma di CAR-T disponibili negli Stati Uniti, dalle prime approvate contro la leucemia linfoblastica acuta e il linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL) fino alle ultime per il mieloma multiplo. I dati oggi a disposizione indicano che nei pazienti trattati con le CAR-T il rischio di secondi tumori non supera quello rilevato tra i pazienti già trattati con chemioterapia. Ciononostante, l’ammontare complessivo di seconde patologie segnalate sul totale di quanti sono stati finora trattati - in Europa sono oltre 40 mila - ha fatto sollevare qualche sopracciglio ai rappresentanti delle autorità regolatorie europee e statunitensi.
LO STUDIO CLINICO DELL’UNIVERSITÁ DI STANFORD
Andiamo più nel dettaglio. Un primo studio clinico pubblicato da poco sulle pagine di The New England Journal of Medicine riporta i risultati relativi alle 724 persone trattate tra il 2016 e il 2024. L’incidenza cumulativa di secondi tumori a 3 anni dall’infusone è stata del 6,5%, un dato che conferma la rarità del fenomeno ma, esaminando i singoli casi con attenzione, i ricercatori hanno notato un particolare su cui riflettere: infatti, dopo un follow-up mediano di 15 mesi sono stati identificati 25 secondi tumori. Il numero, all’apparenza alto, rivela però che 11 erano tumori solidi e, degli altri 14, la maggior parte era associata a sindromi mielodisplastiche o leucemia mieloide acuta. Un solo caso - incluso tra quelli della valutazione del FDA - era dato da un linfoma a cellule T: è quello di una donna di 59 anni affetta da DLBCL, con una storia clinica antecedente di psoriasi e fascite eosinofila, trattata a lungo per queste patologie con un protocollo composto da vari farmaci. Le CAR-T le sono state somministrate al fallimento delle precedenti terapie e 4 mesi dopo l’infusione la donna ha sviluppato un linfoma a cellule T positivo ai marcatori dell’infezione da Epstein-Barr virus.
Allo scopo di approfondire adeguatamente la natura di questo tumore i ricercatori hanno eseguito una serie di analisi molecolari, riscontrando due mutazioni (DNMT3A e TET2) condivise tanto dal DLBCL che dal linfoma a cellule T e che indicavano una possibile origine del problema in una ematopoiesi clonale, un fenomeno comunemente correlato al rischio di patologie mieloidi (e in misura minore linfoidi). Perciò hanno eseguito altri esami giungendo a definire che non vi era stata alcuna integrazione nelle cellule di materiale genetico da parte del vettore virale che aveva veicolato le informazioni per la sintesi del recettore CAR. Questo risultato ha permesso di scartare definitivamente l’ipotesi che il secondo tumore potesse esser collegato alla somministrazione della CAR-T. Tuttavia, secondo le conclusioni degli autori, “sia la chemioterapia linfodepletiva che lo stato di infiammazione mediato dalle CAR-T che la successiva aplasia delle cellule B potrebbero aver contribuito alla proliferazione tumorale associata all’EBV” osservata nel caso della paziente.
UN CASO PIÚ INTERROGATIVO
In un secondo articolo pubblicato sempre sullo stesso numero della rivista NEJM si fa riferimento a un altro caso, descritto stavolta dai ricercatori del Georgetown University Medical Center di Washington. Si tratta di una donna di 71 anni, colpita da mieloma multiplo che, alcuni mesi dopo la somministrazione della CAR-T, ha cominciato a soffrire di diarrea e calo ponderale. I valori degli esami del sangue e dei test microbiologici erano tutti nella norma così la paziente è stata sottoposta ad accertamenti endoscopici che hanno messo in rilievo la presenza di ulcerazioni nel duodeno. Tutto lasciava presagire una patologia autoimmune ma, al termine di una ulteriore batteria di analisi - comprensive del prelievo di alcuni campioni bioptici - è emerso che la donna era affetta da un linfoma T indolente del tratto gastrointestinale. Perciò, come accaduto anche nel precedente studio, sono stati eseguiti approfonditi esami molecolari che, stavolta, hanno confermato la relazione con le CAR-T.
Gli autori si sono soffermati sul tipo di cellule sopravvissute al trattamento iniziale e poi diventate cancerose ipotizzando che, nel cocktail di cellule utilizzate per la preparazione delle CAR-T, potesse essere presente un gruppo di cellule T helper da cui è poi partito il processo di formazione del linfoma. Infine, essi hanno rimarcato l’anomalo immunofenotipo delle cellule neoplastiche e una certa somiglianza nella presentazione clinica con la patologia autoimmune.
Tutto ciò porta in primo piano la necessità di sottoporre i pazienti trattati con CAR-T a periodici e attenti controlli nel tempo.
LA POSIZIONE DEGLI ENTI REGOLATORI: MONITORAGGIO A VITA
Dopo l’allarme acceso inizialmente dall’FDA, non poteva restare in silenzio il principale organo regolatorio europeo che si è espresso proprio attraverso le parole del Comitato per la Sicurezza e la Farmacovigilanza (PRAC) dell’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA), sancendo la necessità che i pazienti trattati con CAR-T siano monitorati per tutta la vita per eventuali neoplasie secondarie. Al termine della consueta riunione per la revisione dei profili di sicurezza dei farmaci - tra cui le terapie oncologiche come le CAR-T - gli esperti europei hanno recepito la comunicazione dei colleghi d’oltreoceano e preso atto dei dati pubblicati nella letteratura scientifica. Ma soprattutto essi hanno valutato i dati di 38 casi di tumori secondari segnalati sui circa 42.500 pazienti trattati con medicinali a base di cellule CAR-T: in sette casi è stato confermato il coinvolgimento delle terapie CAR-T, facendo propendere per la decisione di monitorare i pazienti trattati per tutta la vita per eventuali nuove neoplasie.
Come provvede a fare un commento pubblicato su Nature Medicine da parte di un gruppo di esperti di CAR-T - tra cui figura lo stesso Carl June, pioniere di queste terapie avanzate - è, tuttavia, importante tener presente che il profilo di sicurezza delle CAR-T, reso pubblico dagli stessi produttori all’atto delle approvazioni all’immissione in commercio, non ha mai escluso il rischio che queste situazioni si potessero presentare. Ciò pone sul tavolo un dilemma di altro genere.
RISCHIO E PROBABILITÀ: DUE CONCETTI CHIAVE IN ONCOLOGIA
“Giunta alla conclusione del percorso terapeutico e priva di alternative valide alle cure palliative, una persona affetta da un tumore particolarmente resistente ai trattamenti è ben disposta ad accettare un ‘rischio minimo’ futuro in cambio di una concreta possibilità di guarigione dal tumore”, commenta il Presidente di La Lampada di Aladino ETS, Davide Petruzzelli, che sa bene cosa voglia dire affrontare un linfoma. “Il valore terapeutico delle CAR-T non è in discussione ma, nel contesto attuale, che guarda con fervore a possibili nuove applicazioni, specialmente nell’ambito della malattie autoimmuni, è doveroso non fermare il processo di conoscenza”. Soprattutto ora che le CAR-T stanno veleggiando a suon di buoni risultati verso le prime linee di trattamento.
In un editoriale pubblicato insieme ai due case report di cui si è discusso, si ipotizza che alla base del problema possa esservi l’integrazione di materiale virale in certi geni legati all’insorgenza di cancro; oppure il presentarsi di cambiamenti genetici (o epigenetici) nella fase di espansione delle cellule; o, infine, un’eccessiva proliferazione cellulare. Fare chiarezza su tutti questi aspetti è fondamentale per poter individuare i possibili problemi in anticipo e affrontarli nel modo più adatto. “Tutto questo ci ricorda che in oncologia non esiste una terapia a rischio zero”, conclude Petruzzelli. “Ogni farmaco presenta potenziali eventi avversi ma le commissioni preposte alla valutazione della sicurezza all’interno delle agenzie regolatorie sono in grado di esaminare con attenzione il rapporto rischio-beneficio prima di concedere il via libera alla commercializzazione. E non bisogna trascurare i destinatari ultimi dei trattamenti, cioè i pazienti, che sono estremamente consapevoli delle probabilità di successo e anche dei rischi. È un dovere essere trasparenti con i pazienti. In ogni caso e sempre con quel tocco di sensibilità che ci rende persone migliori”.