RNA

Dopo l’exploit dei vaccini a RNA contro il COVID-19, le aziende continuano a investire nella ricerca sugli RNA terapeutici per curare malattie genetiche o il cancro

Negli ultimi due anni l’acido ribonucleico, o RNA, sembra aver rubato la scena al ben più noto DNA, quando – complice la pandemia COVID-19 – è rapidamente salito alla ribalta della cronaca. I due vaccini prodotti a tempo record da Pfizer/BioNTech e Moderna sono stati anche i primi vaccini a RNA messaggero autorizzati in commercio. La ricerca sull’RNA è tuttora in forte ascesa e aumentano anche gli studi clinici sui cosiddetti “RNA terapeutici”, che istruiscono le cellule a sintetizzare le proteine necessarie per curare una malattia anziché introdurle dall’esterno. Un articolo pubblicato a settembre su Nature illustra le potenzialità di questa tecnologia, ma anche le sfide tecniche che le aziende stanno cercando di superare per portare i nuovi farmaci in clinica.

TERAPIA A RNA MESSAGGERO

La terapia con RNA messaggero (mRNA), al contrario della terapia genica basata sul DNA, non ha bisogno di entrare nel nucleo ed è scritta in una lingua che i ribosomi (gli organelli deputati alla sintesi delle proteine) possono leggere e tradurre direttamente. L’RNA è anche più sicuro perché persiste per un tempo limitato all’interno della cellula, non può integrarsi nel genoma né causare modifiche permanenti. Inoltre, è più facile da produrre rispetto alle proteine: non ha bisogno di cellule vive, ma di una reazione in vitro con pochi reagenti facilmente reperibili. In fase di produzione, o anche dopo, si può facilmente modificare la sequenza per migliorare l’attività, la stabilità o la cinetica del farmaco. Ad oggi, diverse sperimentazioni cliniche stanno valutando le terapie a RNA nel trattamento di malattie monogeniche rare o per produrre direttamente nell’organo bersaglio citochine o anticorpi per l’immunoterapia del cancro.

GLI OSTACOLI TECNICI

L’immunogenicità dell’RNA

Nonostante le potenzialità, l’uso dell’mRNA terapeutico è ancora limitato da ostacoli di natura tecnica. Il primo riguarda la sua tossicità intrinseca: il sistema immunitario dei mammiferi riconosce l’RNA sintetico iniettato dall’esterno come estraneo e inizia a produrre citochine infiammatorie e interferoni. Questo è un problema per i vaccini, ma ancora di più per l’RNA a scopo terapeutico, che nel caso di malattie croniche può richiedere numerose somministrazioni, anche per tutta la vita. Esistono però alcune soluzioni, per esempio quella di incorporare nella sequenza nucleosidi (i “mattoncini” che compongono l’RNA) non immunogenici. Nel 2005 la biologa ungherese Katalin Karikò, che oggi molti indicano come una possibile futura candidata al Premio Nobel, e l’immunologo americano Drew Weissmann scoprirono per primi come ridurre l’immunogenicità dell’RNA, sostituendo una delle basi azotate che lo compongono con un’altra simile, ma naturalmente presente nel corpo umano (ovvero l’uridina con la pseudouridina). Questa semplice sostituzione “nasconde” l’RNA al sistema immunitario ed è alla base di entrambi i vaccini per COVID-19 prodotti dalle aziende Moderna e Pfizer/BioNTech. Diverse aziende usano altri nucleosidi modificati, come la 5-metilcitidina o la 2-tiouridina; altre ancora sostituiscono le uridine con altre base azotate naturali, come la guanosina o la citidina, senza modificare la sequenza della proteina finale.

La tossicità delle nanoparticelle

La tossicità dell’RNA può essere legata anche alla sua formulazione. Per aumentarne la stabilità, l’mRNA viene spesso incapsulato in nanoparticelle lipidiche, che lo proteggono dalla degradazione e lo “traghettano” attraverso la membrana cellulare (è di nuovo questo il caso dei vaccini per COVID-19). Ma l’accumulo di queste particelle nel fegato può causare tossicità, soprattutto nei casi in cui la terapia richiede somministrazioni frequenti e per un tempo prolungato. Ma il problema riguardava soprattutto le nanoparticelle di vecchia generazione, mentre oggi le aziende stanno investendo nella ricerca di formulazioni più sicure. Le particelle più recenti sono facilmente biodegradabili perché contengono gruppi esteri nelle loro “code” lipidiche e vanno incontro a una degradazione più rapida. Possono anche essere ingegnerizzate per la trapsortare l’RNA in un tessuto specifico diverso dal fegato.

Il problema della stabilità

L’RNA è una molecola intrinsecamente poco stabile: le porzioni più vulnerabili sono le due estremità, perché più esposte all’azione di enzimi, le nucleasi, che degradano gli acidi nucleici. Esistono strategie per aumentare la stabilità dell’RNA che servono a “proteggere” le sue estremità. Le aziende spesso usano analoghi del “capping”, un passaggio cruciale nella maturazione dell’mRNA che avviene naturalmente nelle cellule e consiste in un “cappuccio”, la 7-metilguanosina, che si lega al primo nucleotide della sequenza per bloccare le nucleasi. Un’altra strategia è quella di modificare le regioni situate alle estremità dell’mRNA, le UTR (“untraslated regions”), che possono legare proteine e stabilizzare la molecola.

Gli RNA messaggeri del futuro

L’mRNA del futuro potrebbe anche avere un aspetto completamente diverso. Robert Kruse, ricercatore clinico alla Medical School di Harvard, ne ha realizzato uno di forma circolare, dimostrando che può essere trasportato nelle cellule umane, al pari di quello lineare. Ma la sua emivita, che è il tempo che occorre perché la sua concentrazione si riduca alla metà di quella iniziale, è circa 3-4 volte maggiore di quella della molecola lineare, perché non ha estremità libere. Gli esperimenti mostrano che può durare anche per settimane o mesi. Un altro tipo di mRNA che potrebbe presto entrare sulla scena è quello auto amplificante o sa-mRNA (dall’inglese self-amplifying RNA). La molecola contiene una porzione extra che codifica per una replicasi, un enzima che consente all’RNA di auto-replicarsi dopo essere stato iniettato nella cellula. L’espressione potrebbe aumentare fino a 80-100 volte rispetto a un mRNA normale, con una dose iniziale molto più bassa.

La longevità della proteina

Altri trucchi per aumentare la durata della terapia agiscono invece sulla longevità della proteina codificata, modificando la sequenza dell’mRNA prima della traduzione. Una strategia, ad esempio, è quella di eliminare nella proteina finale i siti di legame per l’ubiquitina, un enzima proteolitico che avvia la degradazione. In generale, comunque, i risultati migliori si hanno con proteine che hanno dimensioni piccole, come alcuni enzimi, o che hanno già una emivita eccezionalmente lunga.

Il futuro dell’RNA si prefigura ricco di novità. Ostacoli che un tempo apparivano insormontabili, oggi sembrano più facilmente affrontabili. Non sarà una singola scoperta a lanciare definitivamente le terapie a mRNA in clinica, ma un insieme di tecnologie e di innovazioni che stanno già contribuendo ad aumentare la stabilità e l’efficacia di questa molecola.

Con il contributo incondizionato di

Website by Digitest.net



Questo sito utilizza cookies per il suo funzionamento Maggiori informazioni