vettori virali

Due gruppi di ricerca dell’università di Harvard stanno studiando metodi per ridurre la tossicità e aumentare l’efficacia dei virus adenoassociati in uso nella terapia genica

I virus adenoassociati (AAV) sono tra i vettori in uso nella terapia genica per trasferire materiale genetico all’interno delle cellule. Ma, a volte, questa strategia non è efficace o provoca degli effetti collaterali, perché il sistema immunitario distrugge gli AAV come se fossero dei virus patogeni. Un gruppo di ricerca dell’università di Harvard ha camuffato il genoma virale attaccandovi dei frammenti di DNA umano, una sorta di “mantello dell’invisibilità” che lo nasconde alla vista del sistema immunitario. Sempre ad Harvard, è stato messo a punto un sistema di intelligenza artificiale per generare varianti di AAV che non provocano la tanto temuta risposta immunitaria. Gli studi sono stati pubblicati rispettivamente sulle riviste Science of Translational Medicine e Nature Biotechnology, ed entrambi portano la firma del noto genetista George Church. 

I VIRUS ADENOASSOCIATI

I virus adenoassociati sono stati isolati per la prima volta insieme agli adenovirus. Questi ultimi sono vettori virali ormai noti anche al grande pubblico poiché sono usati per i vaccini genetici contro COVID-19, come ad esempio quelli già approvati (AstraZeneca e Johnson&Johnson) o ancora in fase di sperimentazione. Per il suo utilizzo nella terapia genica o nel campo vaccini, il vettore virale viene deprivato dei geni essenziali per la replicazione: non può quindi riprodursi nell’organismo (è reso innocuo) ma è ancora capace di trasferire il suo materiale genetico all’interno della cellula. I ricercatori possono quindi inserire nel DNA del virus un qualunque gene che intendono veicolare nell’organismo per curare o prevenire una patologia.

LIMITI ED EFFETTI COLLATERALI

Questa strategia terapeutica ha però dei limiti. Si stima, infatti, che circa il 50-70% delle persone potrebbe essere già entrato in contatto con varianti di AVV o adenovirus presenti in natura e avere così sviluppato gli anticorpi e una forma di immunità. Il loro sistema immunitario potrebbe quindi scatenare una risposta infiammatoria contro il vettore virale, interpretando la sua presenza nell’organismo come quella di un intruso patogeno. Nella migliore delle ipotesi, la risposta immunitaria si limita a distruggere il virus, e quindi anche il gene terapeutico, rendendo inefficace la terapia. Ma nei casi peggiori può causare effetti collaterali anche molto gravi.

Gli AAV, rispetto ad altri vettori virali come gli adenovirus, sono meno immunogenici e quindi meno associati a effetti collaterali, ma il rischio non è pari a zero. Ad esempio, le terapie oftalmiche a base di AAV possono causare infiammazione dell’occhio e riduzione della vista; quelle dirette contro il fegato, invece, sono state associate a innalzamento delle transaminasi ed epatotossicità. Una elevata dose di AAV è stata addirittura letale in uno studio clinico su bambini affetti da miopatia mioglobulare legata al cromosoma X. 

IL MANTELLO DELL’INVISIBILITÀ PER IL DNA

Il sistema immunitario 'sente' la presenza del DNA estraneo di virus e batteri grazie a un recettore chiamato “Toll-like receptor 9” (TLR9), a monte di una via di segnalazione cellulare che stimola la produzione di molecole ad azione antivirale, gli interferoni, e altre citochine. Anche se gli AAV sono innocui perché non possono replicare, il loro DNA è simile a quello di un virus patogeno e può legarsi a TLR9.

Il gruppo di ricerca di Harvard, guidato dal famoso genetista George Church, ha ingannato il sistema immunitario camuffando il genoma del vettore AVV con uno speciale “mantello dell’invisibilità”. Uno studio molto interessante che è stato pubblicato lo scorso febbraio su Science of Translational Medicine. Gli scienziati hanno incorporato nel DNA virale delle corte sequenze genetiche (oligonucleotidi) uguali a quelle dei telomeri umani. I telomeri sono strutture formate da sequenze di nucleotidi ripetute alle estremità dei cromosomi, con la funzione di proteggere il DNA dalla degradazione ma anche, ipotizzano i ricercatori, dal fuoco amico del sistema immunitario. Gli oligonucleotidi bloccano fisicamente il legame con TLR9 e permettono al genoma del AVV di percorrere le vie dell’organismo sotto le mentite spoglie di una molecola di DNA umano, nascosto alla vista del sistema immunitario.

Questa strategia non è del tutto nuova, ma gli oligonucleotidi venivano sempre somministrati a parte e in grosse quantità, in modalità spesso non compatibili con la pratica clinica. Per la prima volta, invece, il gruppo di Church li ha incorporati direttamente nel genoma virale.

I RISULTATI DEI TEST

Il virus così ingegnerizzato è stato prima testato in vitro su linee cellulari umane, dove ha indotto una risposta infiammatoria minore rispetto a quello originale. Poi è stato testato in vivo su vari animali modello (topi, maiali, macachi) e con varie modalità di somministrazione (fegato, muscolo, occhio). Negli animali, la strategia ha funzionato bene tranne che in un caso specifico: l’iniezione intravitreale (nell’occhio) nei macachi di una elevata quantità di AVV. In questo caso, la risposta immunitaria è stata soltanto ritardata, ma non eliminata. In questa sede, scrivono gli autori, la risposta immunitaria all’AVV potrebbe dipendere anche da altri fattori diversi dal TLR9.

La sperimentazione clinica potrebbe, quindi, essere il prossimo passo. La modifica al genoma virale è molto semplice e, secondo i ricercatori, potrebbe essere incorporata nelle terapie geniche già destinate alla clinica, senza modificare la loro efficacia o tossicità.

AAV E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Sempre all’università di Harvard, un secondo gruppo di ricerca - che vede ancora una volta il coinvolgimento di George Church -  ha mirato a modificare non il genoma virale ma il capside del virus, ossia il guscio proteico che contiene il genoma stesso. Infatti, anche questo stimola la reazione del sistema immunitario, che produce così anticorpi contro le proteine virali.

Come già accennato, molte persone hanno già una immunità preesistente contro le varianti degli AAV presenti in natura. Un’idea della comunità scientifica è quella di ingegnerizzare nuovi AAV in laboratorio, ma non è un compito banale. Gli anticorpi si legano a varie porzioni del capside virale: una versione non immunogenica del virus, dunque, dovrebbe contenere modifiche multiple nella sua sequenza proteica e in molte posizioni diverse. In altre parole, gli scienziati dovrebbero generare in laboratorio molte più varianti di quelle che esistono in natura.

I ricercatori di Harvard hanno pensato di dare le sequenze di AAV conosciute in mano all’intelligenza artificiale, incaricandola di generare nuove varianti vitali a partire da un segmento di soli 28 amminoacidi. Uno dei problemi delle strategie tradizionali, come la mutagenesi casuale, è che danno origine in circa il 90% dei casi a virus non vitali, perché i capsidi non riescono ad “impacchettare” correttamente il genoma al loro interno. Usando l’intelligenza artificiale e un modello di apprendimento automatico, sono state generate 201.426 varianti, di cui 110.689 sono vitali (il 58%). Lo studio è stato pubblicato a febbraio su Nature Biotechnology.

Questi due studi testimoniano gli sforzi dei ricercatori per generare vettori adenoassociati più sicuri per la clinica, meno tossici e anche più efficaci. I nuovi virus ingegnerizzati, infatti, sarebbero finalmente in grado di portare a destinazione il loro carico genetico senza allertare il sistema immunitario, rappresentando un grosso passo in avanti per la terapia genica. Ovviamente, gli studi non si fermano qui, prima di poter utilizzare queste nuove strategie nella pratica clinica bisognerà superare altri test, tra cui i trial clinici.

Con il contributo incondizionato di

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