Quali sono i problemi nella scelta degli antigeni per la realizzazione delle CAR-T da usare nei tumori solidi e quali le difficoltà e le problematiche inerenti al loro impiego contro questa classe di neoplasie? Lo spiega il prof. Ciceri dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano

Qualcuno li ha definiti i “Power Rangers” della medicina citando una serie televisiva per ragazzi in voga negli anni ’90 e forse il paragone non è poi così sbagliato se si considera che le CAR-T sono cellule immunitarie – più precisamente linfociti T – che grazie all’ingegneria genetica vengono armate con un recettore chimerico, CAR, grazie al quale possono riconoscere in maniera altamente specifica un antigene espresso dalla cellula tumorale e, in tal modo, uccidere questa cellula.

I linfociti T rappresentano una categoria cellulare di vertice del nostro sistema immunitario perché formano la base della protezione immunologica contro tutto ciò che proviene dall’esterno. Pertanto, il razionale dell’utilizzo delle CAR-T è quello di infettare i linfociti T con un virus che trasferisca al loro interno il gene con le instruzioni per l’espressione dell’antigene CAR (un prodotto di fusione tra la struttura di un anticorpo e quella di un recettore cellulare) e dar loro maggiori risorse per svolgere al meglio il loro compito immunologico. Essi, infatti, non hanno altra missione che riconoscere e uccidere una cellula target, e grazie al recettore CAR la possono fare in maniera mirata, essendo così indirizzati sul tumore che esprime l’antigene che sono stati ‘istruiti’ a riconoscere.

Al momento attuale, l’uso delle cellule CAR-T ha dato ottimi risultati portando all’approvazione e all’immissione in commercio di due prodotti medicinali per il trattamento della leucemia linfoblastica acuta a cellule B e del linfoma diffuso a grandi cellule B, due patologie oncologiche che hanno in comune l’espressione dell’antigene CD-19, usato come bersaglio per questa nuova forma di terapia. Nel caso dei tumori solidi, invece, le difficoltà incontrate dai ricercatori non hanno permesso un avanzamento altrettanto rapido. Vediamo di capire il perché di questa differenza insieme al prof. Fabio Ciceri, Direttore dell’Unità Operativa di Ematologia e Trapianto di Midollo dell’IRCSS Ospedale San Raffaele di Milano.

LA SCELTA DELL’ANTIGENE
“Per i tumori solidi la scelta dell’antigene da usare come bersaglio deve rispondere a due criteri fondamentali” – spiega il prof. Ciceri – “Il primo è quello della sua rappresentazione sulla totalità delle cellule tumorali. Se l’antigene è espresso solo in una parte del tumore, l’approccio con le CAR-T funzionerà solo su quella parte e si produrrà una risposta parziale. Il secondo criterio importante è quello della stabilità dell’espressione. L’antigene scelto deve essere espresso non solo al momento della diagnosi e su tutto il tumore ma la sua espressione deve essere mantenuta nel corso della progressione tumorale. Questa è la difficoltà principale che si genera con i tumori solidi nei quali l’espressione antigenica è ricca ma anche variabile nel tempo e, pertanto, estremamente eterogenea”.
Inoltre, non bisogna dimenticare che la gran varietà di antigeni presente sulla superficie delle cellule tumorali è condivisa coi tessuti sani. Infatti, un tumore rappresenta la trasformazione neoplastica delle cellule strutturalmente sane di un organo e tale processo gli consente di acquisire proprietà biologiche legate alle potenzialità di crescita e di invasività. Ma all’interno di un tumore sussistono anche caratteristiche peculiari del tessuto originario che sono riuscite a conservarsi. “La cosiddetta presenza off-tumour (al di fuori del tumore, n.d.r.) dell’antigene target, detta anche on-target off-tumour, è una problematica pesante nella scelta dell’antigene da impiegare contro i tumori solidi” – prosegue Ciceri – “Infatti, frequentemente ci troviamo ad avere a che fare con un antigene ben espresso in modo costante da tutto il tumore ma mostrato anche da cellule sane degli organi da cui il tumore deriva. In tal caso, le CAR-T sono capaci di riconoscere lo stesso antigene sia che esso si trovi sulle cellule maligne sia su quelle sane. L’espressione degli antigeni target anche sulle cellule normali è una delle grosse difficoltà che i ricercatori stanno affrontando nella messa a punto di una terapia a base di CAR-T per i tumori solidi”.

E, dunque, vien spontaneo domandarsi perchè tali problemi non si presentino anche nel caso dell’antigene CD-19 espresso da una componente sana di cellule anche nel caso delle leucemie e dei linfomi. “L’antigene CD-19 è presente anche sui linfociti B normali è ciò implica che le CAR-T li prendano di mira abbattendone la numerosità in modo drastico” – afferma Ciceri – “Questo determina un deficit della produzione di immunoglobuline perché dai linficiti B hanno origine le plasmacellule che producono gli anticorpi. Tuttavia si tratta di un problema risolvibile perché è possibile somministrare a dose terapeutiche le immunoglobuline al paziente, proteggendolo così dalle infezioni”. Pertanto, nel caso del CD-19 l’effetto finale dell’on-target off-tumour è un’ipogammaglobulinemia correggibile. Questo rende possibile contenere gli effetti tossici della terapia. Invece, nel caso dei tumori solidi si rischia di incorrere in reazioni tossiche critiche a danno dell’organo sano.

ACCESSIBILITA’ AL TUMORE
Un ulteriore problema che subentra nel caso dei tumori solidi è dato dall’accessibilità dell’antigene. “Mentre nel caso di una leucemia le cellule da usare circolano libere nel sangue o stazionano nel midollo che, per definizione, è una sorta di piazza ben popolata di cellule e ormai facilmente accessibile alle équipes mediche, ciò non si verifica nel tumore solido” – fa notare l’esperto primario milanese – “È pur vero che il tumore solido crescendo di dimensione acquisice una certa vascolarizzazione ma è altrettanto innegabile che metta in atto meccanismi di protezione che rendono difficoltoso l’accesso delle cellule CAR-T”. L’iniezione delle cellule in loco è un abile tentativo usato per aggirare questo ostacolo in pazienti affetti da glioblastoma e neuroblastoma ma sono state sperimentate anche altre vie per risolvere la problematica. “Si sta cercando di indurre nel tumore uno stato infiammatorio attraverso la chemioterapia o la radioterapia a basse dosi, per facilitare l’ingresso delle cellule immunitarie” – spiega Ciceri – “La sinergia tra la chemioterapia o la radioterapia e le CAR-T richiama le cellule infimmatorie e rende più facile il lavoro delle CAR-T”. Si cerca di creare in tal modo un ambiente che faciliti l’opera dei linfociti T, un po’ come accade quando le squadre di vigili del fuoco si trovano a dover abbattere alcuni alberi per contenere o deviare la direzione di un incendio.

CAR-T E INIBITORI DEI CHECKPOINT IMMUNITARI
Le contromosse del tumore, tuttavia, non mancano e tra i meccanismi con cui le cellule tumorali si proteggono non esiste solo l’ostruzione all’ingresso degli effettori immunitari. Infatti, una volta che i linfociti T sono riusciti a penetrare all’interno del tumore le cellule neoplastiche adottano una strategia per tentare di non farsi riconoscere, impedendo la distruzione del tumore da parte delle CAR-T. “Questa inibizione si realizza attraverso l’esposizione dei checkpoint immunitari che, di fatto, impartiscono un segnale di arresto alle cellule immunitarie come i linfociti T pronti all’attacco, fermandoli” – spiega Ciceri – “Tale meccanismo è stato dimostrato nel caso dei linfociti T che affrontano in maniera fisiologica il tumore ma accade anche con le cellule CAR-T perciò alcuni ricercatori hanno pensato di somministrare ai malati da trattare con le CAR-T una terapia a base di anticorpi che blocchino questi segnali di stop. Sono i cosiddetti checkpoint inibitori, farmaci che si sono rivelati estremamente efficaci nella cura di diversi tipi di tumori solidi perché disinnescano il segnale di blocco del tumore ai linfociti T. È attualmente allo studio la combinazione tra CAR-T ed inibitori dei checkpoint inmmunitari e ci aspetta che possa dare risultati positivi sul piano terapeutico non senza qualche rischio sul piano dell’attivazione delle CAR-T e quindi della sindrome da rilascio delle citochine e della tossicità legata a questo tipo di immunoterapia”.

Infatti, la sindrome da rilascio delle citochine è un fenomeno direttamente prodotto in seguito al riconoscimento da parte delle cellule CAR-T del tumore. La messa in moto della macchina di distruzione del tumore scatena una vera e propria tempesta di citochine, cioè di proteine infiammatorie che possono innescare effetti collaterali gravi a livello sistemico perché rischiano di danneggiare i sistemi cardio-circolatorio, renale, epatico e nervoso, con un aumento di tosscità che potrebbe condurre anche alla morte del paziente. “La tempesta citochinica è un effetto diretto del riconoscimento da parte delle CAR-T dell’antigene tumorale” – conclude Ciceri – “E il fattore di rischio principale per questa complicanza è la quantità di tumore che un paziente presenta al momento dell’infusione con le CAR-T. Più antigene c’è e più alto è il rischio che si scateni la reazione. Pertanto, più il tumore è avanzato e più è alto il rischio della sindrome da rilascio di citochine”.
In conclusione, la parola d’ordine per l’uso delle CAR-T nei tumori solidi è prudenza. La situazione che i ricercatori devono affrontare è molto più variegata rispetto a quanto visto nei tumori ematologici per cui, nonostante i primi risultati depongano per la fattibilità di questa strategia, la cautela e l’attenzione agli eventi avversi sono elementi irrinunciabili per sancire l’autentico successo dell’immunoterapia con CAR-T.

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