Dalle CAR-T alle nanoparticelle, sono diverse le strategie ideate e in via di sviluppo per spegnere l’incendio immunologico suscitato da alcune patologie
Una delle similitudini più sfruttate quando si parla di terapie a base di cellule CAR-T è quella dei super-soldati, addestrati a riconoscere e distruggere i tumori. Si tratta di una semplificazione (adottata anche per le illustrazioni con cui abbiamo accompagnato la terza puntata del podcast Reshape - Un viaggio nella medicina del futuro) che aiuta a chiarire il meccanismo d’azione di queste terapie avanzate. Ma, riavvolgendo il nastro e fermandosi a riflettere un secondo viene da chiedersi come facciano i linfociti T che pattugliano l’organismo a riconoscere una cellula del loro stesso organismo, distinguendola ad esempio da un virus esterno. La risposta a questa domanda è connessa alla genesi delle malattie autoimmuni nei confronti delle quali le CAR-T, anti CD19 o di altro tipo, costituiscono una nuova frontiera.
Infatti, per quanto enormemente più intricato di quel che oggi si sa, il sistema immunitario si fonda su due principi di base: l’intolleranza per ciò che riconosce come estraneo a sé (cioè a tutto ciò che rientra nella categoria del non-self) e la tolleranza per ciò che ritiene essere proprio di sé (vale a dire per tutto quello che ricade nella categoria del self). A quanti fosse già venuto il mal di testa basterà leggere il libro “Self e Not-Self: le basi cellulari dell’immunologia”, del Premio Nobel Frank MacFarlane Burnet, per capire meglio in che modo i linfociti T sviluppino una “tolleranza” nei confronti delle cellule del loro stesso organismo, evitando di scatenare contro di esse la loro furia citotossica. Purtroppo, esistono condizioni mediche nelle quali - per varie ragioni - i linfociti T appaiono confusi e rivolgono i loro attacchi contro cellule sane che, disgraziatamente, non classificano come tali. Come nelle malattie autoimmuni.
IL LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO E LE ALTRE MALATTIE AUTOIMMUNI
In esse, per ragioni ancora del tutto non comprese, la tolleranza al self vien meno e il sistema immunitario se la prende con le molecole presenti sulle cellule e sui tessuti del corpo. È quello che accade nel lupus eritematoso sistemico (LES), una condizione caratterizzata dalla presenza di auto-anticorpi rivolti contro diverse strutture della cellula. Come conseguenza, la malattia ha manifestazioni sintomatiche a carico di vari distretti dell’organismo, articolare, renale, vascolare, cardio-polmonare e cutaneo: uno dei sintomi più caratteristici di questa condizione è la comparsa sulla regione del viso e delle orecchie di un eritema “a farfalla”. Nel LES la valutazione immunologica appare cruciale dal momento che in una larga fetta di casi si riscontra una positività agli anticorpi anti-nucleo (ANA), cioè auto-anticorpi prodotti contro alcune sostanze contenute nel nucleo della cellula. Molti individui affetti da LES presentano anche positività agli anticorpi anti-DNA nativo, anti-Sm, anti-PCNA. Ci sono poi persone che risultano positive ad ulteriori test - ad esempio quelli per il riscontro di anticorpi anti-Ro/SSA e anti-La/SSB - che però sono associati anche ad altre patologie autoimmuni, tra cui la sindrome di Sjögren.
Un’altra sindrome autoimmune per cui è importante eseguire una valutazione immunologica è la sclerodermia - che può avere manifestazione localizzata oppure sistemica - nella quale spesso sono prodotti anticorpi anti-SCL70 e anti-centromero. Il riscontro positivo di una classe di anticorpi o l’altra può indirizzare il medico verso una diagnosi di malattia specifica. Ma l’elenco delle patologie autoimmuni è lungo e comprende l’artrite reumatoide, le connettiviti e le vasculiti, certe malattie della tiroide o le epatopatie autoimmuni, nonché malattie del sistema digerente come la rettocolite ulcerosa e la malattia di Crohn. Persino il diabete mellito di tipo I, protagonista di un’interessante ricerca condotta dal professor Pere Santamaria, dell’Università di Calgary in Canada.
SISTEMI PER IL RECUPERO DELLA TOLLERANZA AL SELF…
Santamaria, infatti, ha pensato di ricorrere a delle speciali nanoparticelle per individuare gli antigeni esposti dalle cellule in associazione alla malattia e, successivamente, di eliminarle. Le sue nanoparticelle sono equipaggiate con una struttura - nota come complesso maggiore di istocompatibilità - incaricata di presentare ai linfociti T gli antigeni che identificano le cellule da attaccare e quelle, invece, da risparmiare. Al termine di una serie di esperimenti sui roditori, Santamaria ha osservato che le nanoparticelle stimolavano la creazione delle cosiddette cellule T regolatrici (Treg) le quali contribuiscono a tener sotto controllo la risposta immunitaria. In un certo senso, esse riescono così a spegnere l’incendio immunologico suscitato dalla malattia.
Non si tratta della sola via percorsa dagli scienziati per trovare il bandolo della matassa delle patologie autoimmuni: un gruppo di ricercatori, guidati dal professor Jeffrey A. Hubbell dell’Università di Chicago, ha pubblicato qualche mese fa gli esiti di una ricerca molto interessante sulla rivista Nature Biomedical Engineering. Sfruttando speciali etichette necessarie a guidare i residui di scarto verso il fegato - considerato la centrale di smistamento e rielaborazione dell’organismo – gli scienziati hanno ideato un sistema per veicolare anche specifiche cellule verso il fegato, dove incontrano quelle che riconoscono l’antigene e stimolano una risposta immunitaria diretta contro di esso.
…E ALTRI PER ELIMINARE LE CELLULE RESPONSABILI DELLA MALATTIA
In tutto ciò dove entrano in gioco le terapie a base di cellule CAR-T? In un articolo apparso sulla rivista Nature la giornalista scientifica Heidi Ledford cita l’esperienza di 15 persone tedesche affette da malattia autoimmune (8 con LES, 4 con sclerosi sistemica e 3 con miosite autoimmune) nelle quali il trattamento con CAR-T ha prodotto risultati straordinari, alleviando i sintomi e innalzando sensibilmente la qualità di vita dei malati. I pazienti che hanno ricevuto le CAR-T sono migliorati in maniera significativa e sono rimasti in remissione per lungo tempo, come se le CAR-T fossero state in grado di fare piazza pulita delle cellule responsabili della loro malattia.
Di questa incredibile risposta al trattamento ci eravamo occupati qualche tempo fa raccontando di come le CAR-T avessero letteralmente “resettato” il sistema immunitario, eliminando le cellule B coinvolte nella genesi della patologia. Più di recente, il successo italiano che ha visto i ricercatori dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma sfruttare le CAR-T per contrastare i sintomi di due malattie autoimmuni di cui erano affetti due ragazze italiane e un bambino ucraino, ha confermato le potenzialità di questo approccio.
“I risultati sono strabilianti, sbalorditivi ed eccezionalmente persistenti”, afferma il dott. Fabrizio De Benedetti, responsabile dell’area di ricerca di Immunologia, Reumatologia e Malattie infettive e Direttore dell’U.O.C. di Reumatologia dell’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e questo entusiasmo è relativo non solo all’efficacia ma alla durata della risposta. Le CAR-T, infatti, prendono a bersaglio la molecola CD19 posto sulla superficie esterna delle cellule B coinvolte nella patogenesi della malattia eliminandole e cancellando i sintomi (per approfondire il meccanismo di azione di questa strategia potete leggere l’intervista al dott. De Benedetti disponibile qui). Ma a fronte di questo fervore occorre ricordare che certe malattie autoimmuni trovano spiegazione nella disregolazione di soltanto una modesta frazione di cellule B, perciò servirebbero soluzioni capaci di rendere ancora più preciso l’attacco.
A ragionare in questa direzione è una dermatologa del Columbia University Vagelos College of Physicians and Surgeons di New York, Aimee Payne, che sta studiando un metodo per curare una malattia nota come pemfigo volgare nella quale il bersaglio dell’autoimmunità è la desmogleina 3, una proteina implicata nella coesione degli epiteli. Piuttosto che progettare una CAR-T mirata contro tutte le cellule B, Payne vuole fare in modo che siano le cellule T ad esprimere la desmogleina 3, in modo tale da stabilire un legame con gli anticorpi anti-desmogleina 3 presenti sulla superficie delle cellule B malate. “L’obiettivo è realizzare delle CAR-T il cui recettore riconosca solamente quegli specifici anticorpi, in modo tale che i super-linfociti uccidano solo le cellule che li esprimono”, precisa De Benedetti. “Così l’attacco si fa più mirato e puntuale”. Ma un tal modello di ricerca presenta non poche sfide e, come i precedenti, dovrà uscire indenne dal percorso di validazione clinica prima di poter esser ammesso ai corridoi degli ambulatori e delle cliniche mediche.
Tuttavia l’innovazione portata dalle terapie avanzate nel campo di certi disordini immunitari potrebbe nel breve periodo generare un filone di trattamenti senza precedente e, quel che più conta, spingere all’elaborazione di una soluzione efficace a processi patologici cronici - in alcuni casi molto dolorosi - con cui milioni di persone convivono da anni.