Dott. Giuseppe Gaipa (Monza): “Tra i parametri da monitorare ci sono la persistenza, il fenotipo delle cellule con il CAR e la quantità di malattia prima e dopo il trattamento”
Negli ultimi anni la popolarità delle terapie a base di cellule CAR-T è cresciuta a dismisura, spinta dall’entusiasmo di aver trovato un’opzione terapeutica contro malattie che fino a poco fa non davano prospettive di guarigione. Tuttavia, i dati a lungo termine sono, com’è logico aspettarsi per ogni trattamento nuovo, esigui: bisogna che trascorra un certo numero di anni e che le CAR-T siano somministrate a una elevata quantità di pazienti per ottenere il volume di dati utile a costruire delle curve di efficacia. Alcuni di questi dati stanno già arrivando ma, in generale, come si può dire che le CAR-T stiano funzionando? Ne abbiamo parlato con il dott. Giuseppe Gaipa, responsabile del Laboratorio di Terapia Cellulare e Genica ‘Stefano Verri’ presso ASST Monza e ricercatore della Fondazione Tettamanti.
PERSISTENZA, FENOTIPO E CARICO DI MALATTIA
Affermare che chi le abbia ricevute sia guarito non è sufficiente; non si può sapere per quanto tempo durerà la remissione e se la malattia si ripresenterà (in tal caso, occorre esser certi di come comportarsi) o meno. Servono parametri oggettivi per studiare la delicata interazione tra le CAR-T e il nostro sistema immunitario. “L’immuno-monitoraggio delle cellule CAR-T è una procedura da collocare in un contesto tale per cui i dati da essa prodotti siano utilizzabili”, spiega il dott. Giuseppe Gaipa. “Affinché il significato di questa procedura abbia un risvolto tangibile nella gestione clinica del paziente post-trattamento”.
Ma quali sono i parametri da considerare nella valutazione dell’efficacia delle CAR-T? “Accanto alla misurazione dell’effetto anti-tumorale di un prodotto modificato per esprimere l’antigene CAR e alla registrazione degli eventuali effetti collaterali, ci sono altri marcatori biologici in grado di determinare la prognosi del paziente”, sottolinea Gaipa. “Tra questi figurano la persistenza, ovvero quanto tempo dopo l’infusione la cellula con il CAR circola ancora nel paziente, e il loro fenotipo, cioè se queste cellule, che di norma sono linfociti, possono ancora proliferare o produrre risposte efficienti in termini di citotossicità. Infine, si considera se il carico di malattia, definito prima dell’infusione, abbia un impatto sulle capacità di espandersi delle cellule che hanno il CAR. Bisogna capire se le nuove cellule sono in grado di aggredire o meno la patologia”.
Un ulteriore parametro da considerare è la malattia residua minima al termine del trattamento, ovvero quanto tumore rimane dopo diverse settimane dalla somministrazione delle terapie con cellule che esprimono l’antigene CAR. “Gli studi finora condotti”, precisa Gaipa, “hanno permesso di correlare la rapidità con cui la malattia svanisce e la persistenza dello stato di remissione molecolare all’outcome clinico del paziente”.
UNA CELLULA SU CENTOMILA!
Da qui si inizia a capire l’importanza del follow-up, che consiste in una serie di visite programmate a cui i pazienti trattati devono puntualmente sottoporsi e nel corso delle quali si ottengono i campioni di sangue necessari per monitorare tutti questi parametri. La procedura di analisi non è semplice ma oggi gli scienziati dispongono di strumentazioni sofisticate grazie alle quali sono in grado di osservare e quantificare numerosi parametri biologici con estrema precisione. “Ricorrendo alle moderne piattaforme di citofluorimetria siamo in grado di analizzare ogni parametro a livello di una singola cellula”, specifica ancora Gaipa. “I linfociti T trasdotti con l’antigene CAR ottenuti dal prelievo di sangue del paziente passano nei circuiti della piattaforma citofluorimetrica che ne identifica le caratteristiche strutturali e funzionali. Inoltre, si va a vedere la malattia residua minima”. Questi due parametri vengono messi in relazione sia con la risposta clinica del paziente a medio e lungo termine che con la tossicità rilevata dai classici esami clinici.
“A livello tecnico parliamo di apparecchiature così evolute da poter misurare decine di parametri tutti insieme sulla stessa cellula nella medesima provetta di sangue”, aggiunge Gaipa. “La sensibilità analitica è straordinariamente elevata, dal momento che siamo in grado di caratterizzare il corredo proteico cellulare con una sensibilità di una cellula su 100 mila: se nel campione di sangue c’è una cellula con il CAR su centomila totali, riusciamo a vederla e studiare su di essa tutti i parametri poc’anzi descritti nello stesso momento”.
PER MIGLIORARE BISOGNA CAMBIARE SPESSO
Una tale metodologia di analisi si applica a tutte le terapie a base di cellule CAR-T ma i ricercatori del Laboratorio di Terapia Cellulare e Genica ‘Stefano Verri’ di Monza, guidati dal dott. Gaipa, le stanno testando sulle cellule CAR-CIK le quali, a differenza delle classiche CAR-T, sono prodotte a partire da un donatore sano. Inoltre, le cellule CIK hanno un profilo immunitario simile a quello delle cellule NK e uccidono le cellule tumorali in maniera diversa dai linfociti T. Per certi versi le CAR-CIK rappresentano un’evoluzione delle CAR-T.
“In uno studio clinico di Fase I da poco concluso, abbiamo arruolato 21 pazienti affetti da Leucemia Linfoblastica Acuta (LLA) recidivata dopo trapianto di cellule staminali ematopoietiche e abbiamo fatto l’analisi di immuno-monitoraggio”, racconta Gaipa. “Abbiamo visto che la quantità di cellule leucemiche presenti 28 giorni dopo l’infusione delle CAR-CIK correla bene con la sopravvivenza globale. Ciò significa che quanto meglio le CAR-CIK lavorano nel primo mese, tanto più è probabile che, nei mesi successivi, il paziente raggiunga una buona sopravvivenza libera da malattia. Inoltre, più le cellule CAR-CIK persistono nel sangue dei pazienti, maggiore è la loro possibilità di rimanere liberi dai segni della malattia. Infine, le cellule CAR che persistono nel sangue dei pazienti non devono essere troppo “esaurite” ma devono poter continuare a poter svolgere la loro funzione”.
Nello studio di Fase II da poco avviato i ricercatori useranno tutte queste informazioni - soprattutto quelle relative alla malattia minima residua - per distinguere i pazienti in cui le cellule modificate funzionano bene da quelli che sono a rischio di una ricaduta e che riceveranno una seconda infusione dello stesso lotto di CAR-CIK. Tali informazioni sono indispensabili anche per perfezionare l’uso delle CAR-T insieme ai farmaci biologici che agiscono su altre componenti del sistema immunitario del paziente. L’obiettivo è di arrivare a disporre presto di strumenti più efficienti contro il bersaglio tumorale.