Coronavirus

Dal microscopio elettronico alle caverne, dalla scoperta del primo Coronavirus alla ricerca di possibili nuove zoonosi: le storie di June Almeida e Shi Zhengli

Prima dell’epidemia di SARS del 2003 si sapeva poco dei Coronavirus (CoV), i quali venivano normalmente associati ai comuni raffreddori. Con la prima grande epidemia del XXI secolo, la prospettiva è cambiata. Per la prima volta abbiamo assistito alla diffusione di un CoV dal potenziale pandemico, allora fortunatamente superato. Purtroppo, non è andata allo stesso modo con il SARS-CoV-2, responsabile della pandemia di COVID-19 in corso. I Coronavirus sono infatti conosciuti solo dal 1964, anno in cui June Almeda ha identificato un Coronavirus per la prima volta grazie a una tecnica pionieristica di microscopia. Coincidenza vuole che il 1964 sia l’anno di nascita della virologa cinese Shi Zheng-Li, soprannominata “Bat woman”, che esplora grotte e caverne, studiando virus potenzialmente mortali per l’uomo.

La storia della dottoressa Zheng-Li, approfonditamente descritta di recente anche su Scientific American, inizia ben prima dell’attuale emergenza sanitaria. Da più di 16 anni, infatti, si dedica alla ricerca e allo studio di nuove infezioni virali e ha identificato, assieme al suo team, dozzine di virus - simili a quello che ha causato la SARS – nei pipistrelli. È fatto ormai noto che la comparsa di nuove malattie infettive stia accelerando rispetto al passato, specialmente nelle zone ad alta densità di popolazione e in quelle dove l’impatto dell’uomo a livello del territorio è maggiore. La Cina corrisponde a queste caratteristiche, ma non è l’unica area a rischio elevato, basti pensare ad alcune zone in Sudamerica e dell’Africa. Di conseguenza, conoscere la causa e le modalità di diffusione di una infezione è fondamentale per la sanità globale e lo è altrettanto studiare nuovi potenziali patogeni per sviluppare gli strumenti adatti a contrastarli. La diffusione di un virus dal potenziale pandemico come quello della SARS, ormai quasi 20 anni fa, ha fatto aumentare le ricerche in quel settore e Zheng-Li è stata una delle prime a dedicarsi ai cosiddetti ‘spillover’ (quando il virus ‘salta’ da una specie all’altra). Come descritto dall’omonimo libro di David Quammen, di spillover ce ne sono stati diversi e spesso sono stati ricondotti ai pipistrelli.

Negli ultimi decenni sono ben sei le infezioni che hanno fatto il salto di specie dai pipistrelli, a un animale serbatoio intermedio e poi all’uomo: Hendra, Nipah, Marburg, SARS-CoV, MERS-Cov ed Ebola. E ora SARS-CoV-2 che, stando a un articolo pubblicato a inizio febbraio su Nature proprio dal gruppo della virologa cinese, sembrerebbe avere il suo serbatoio naturale nei pipistrelli. Inoltre, altri studi hanno ipotizzato che i pangolini siano l’ospite intermedio, ma è una informazione ancora in attesa di conferma e pubblicata solo in preprint (ovvero senza aver subito il processo di peer review) su bioRxiv. Durante le loro ricerche sul campo, il gruppo del CAS Key Laboratory of Special Pathogens presso Wuhan Institute of Virology ha scoperto molti Coronavirus con una altissima varietà a livello genetico. La maggior parte sono innocui, ma alcuni appartengono allo stesso sottogruppo della SARS e possono essere pericolosi e, stando ai test in vitro, possono infettare cellule polmonari umane. Nelle ultime settimane, diverse accuse relative alla “fuga di virus” sono state mosse nei confronti della dottoressa Zheng-Li e del suo laboratorio, ma il sequenziamento del virus ha permesso di evidenziare le differenze tra il virus che causa la COVID-19 e quelli campionati durante le loro ricerche. La pubblicazione, lo scorso 17 marzo, di una serie di dati a riguardo su Nature Medicine conclude senza lasciare spazio alle ambiguità “Le nostre analisi mostrano chiaramente che SARS-CoV-2 non è un costrutto di laboratorio o un virus manipolato di proposito”.

Se oggi è possibile studiare, sequenziare e ‘andare a caccia’ di Coronavirus è anche grazie al contributo di June Almeida (Hart da nubile, 1930-2007), una pioniera nel mondo delle immagini scientifiche. Infatti, negli anni ’60 Almeida riuscì a identificare per la prima volta un Coronavirus al microscopio elettronico e a intuire la differenza tra questa tipologia di virus e il virus dell’influenza. Questo grazie all’immunoelettromicroscopia, una tecnica da lei creata che ha rivoluzionato la microscopia elettronica. Nella procedura vengono utilizzate particelle ricoperte di anticorpi in grado di riconoscere uno specifico virus, legarsi a esso e permetterne l’identificazione in modo preciso, cosa non semplice al tempo.

June Almeida non seguì il percorso di formazione classico che ci si aspetterebbe di fronte a un tale contributo scientifico. Nata e cresciuta in Scozia, a 16 anni lasciò la scuola per motivi economici, ma subito dopo trovò lavoro come tecnico di laboratorio al Glasgow Royal Infirmary. Dopo un breve periodo a Londra, dove conobbe il futuro marito Enriques Almeida, si spostò in Canada. All’Ontario Cancer Institute ha coltivato le sue conoscenze sul microscopio elettronico, sviluppato tecniche innovative, pubblicato diversi articoli sulla struttura di virus sconosciuti fino ad allora ed effettuato diagnosi grazie alle tecniche di imaging. Grazie alle sue capacità e ai risultati ottenuti, le venne successivamente offerto un posto al St. Thomas’s Hospital a Londra.

Nel 1964 il dottor David Tyrrell, direttore dell’unità di ricerca sul raffreddore a Salisbury, mandò un campione di un virus che avevano difficoltà a far crescere in condizioni normali, chiamato B814. Almeida riprodusse immagini del virus, che le ricordavano particelle già viste in precedenza mentre studiava la bronchite nei polli e l’epatite nei topi. Con questa terza immagine, Almeida dedusse che si trovava di fronte a una nuova famiglia di virus. Fu lei la prima a vedere al microscopio elettronico un puntino grigio ricoperto da piccole sporgenze, qualcosa che ricordava la forma di una corona: la prima immagine di un Coronavirus. Ancora oggi vengono usate le tecniche messe a punto durante i suoi studi e, pur avendo concluso la sua carriera nel 1985, in seguito lavorò come consulente e contribuì alla pubblicazione delle prime immagini in alta definizione dell’HIV.

In pochi conoscevano la storia di June Almenida prima di questa pandemia, ma oggi le sue scoperte sono più che mai attuali e hanno messo le basi per l’individuazione e la classificazione di virus. Cosa fondamentale per chi, come Shi Zhengli, va a caccia dei prossimi possibili spillover.

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