I gruppi di Matteo Calvaresi e Alberto Danielli

All’Università di Bologna è stato sviluppato un fago anti-cancro: un virus, innocuo per gli esseri umani, ingegnerizzato geneticamente e modificato chimicamente per attaccare le cellule tumorali

Il fago M13, cioè un virus che infetta naturalmente i batteri, è il protagonista dello studio condotto da un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna nell’ambito del progetto NanoPhage, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro. I risultati, pubblicati sulla rivista Nanoscale, descrivono il processo di ingegnerizzazione del fago che diventa così un veicolo in grado di raggiungere ed eliminare selettivamente le cellule tumorali. Questo è possibile grazie alla terapia fotodinamica: con dei meccanismi di riconoscimento il fago viene internalizzato dalle cellule tumorali dopodiché - essendo stato modificato chimicamente - sotto lo stimolo di uno specifico impulso luminoso trasforma l’ossigeno presente nelle cellule in molecole altamente reattive in grado di indurre la morte cellulare. Ne abbiamo parlato con i due coordinatori dello studio: Matteo Calvaresi e Alberto Danielli.

Un trattamento mirato e non invasivo che viene attivato dalla luce: la terapia fotodinamica rappresenta una opzione terapeutica promettente per gli studi sul cancro e, grazie all’incontro tra chimica e biologia – nello specifico tra molecole fotosensibilizzanti e fagi – è stato fatto un ulteriore passo avanti dal punto di vista scientifico in questo campo. Ma com’è nata questa collaborazione?

“Stavo cercando di aprire una nuova via di ricerca per valorizzare la nostra esperienza in (micro)biologia molecolare in campo terapeutico. Mi aveva molto colpito il fullerene, una molecola fotoeccitabile, e quindi ho deciso di contattare Matteo Calvaresi che fa ricerca nel settore”, racconta Alberto Danielli, professore al Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell’Università di Bologna. “Nello specifico, il mio gruppo stava studiando come rendere il fago una struttura nanobiotecnologica modificabile geneticamente per avere alcune funzioni specifiche e l’idea di poterlo armare con delle molecole chimiche che potessero essere eccitabili e attivate in modo controllato mi sembrava molto interessante”.

“Noi stavamo già lavorando sulla terapia fotodinamica del cancro da qualche tempo”, commenta Matteo Calvaresi, professore al Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” dell’Università di Bologna. “Il punto di forza di questo approccio è l’alto livello di controllo spaziale che si può avere, dato che le molecole si attivano solo dove viene indirizzata la fonte luminosa. È quindi molto selettiva, ma si porta con sé una fototossicità generalizzata perché dopo la somministrazione queste molecole possono raggiungere qualsiasi parte dell’organismo e anche la luce solare può attivarle e causare effetti collaterali. Motivo per cui i pazienti, dopo questo tipo di trattamento, devono rimanere diversi giorni al buio. Cercavamo quindi un modo per trasportare queste molecole in maniera selettiva alle cellule target. Dopo aver provato con gli approcci classici, come gli anticorpi, l’idea del fago ci ha piacevolmente stupito e coinvolto”.

Il fago M13 ha la forma di uno spaghettino (1000 nanometri di lunghezza e 5 nanometri di larghezza) e, grazie alle modifiche biologiche sull’estremità, è possibile indirizzarlo verso cellule tumorali specifiche. Nel caso dello studio bolognese, le cellule che esprimono in eccesso il recettore EGFR, come nel cancro al seno, al colon, ai polmoni e al cervello. Modificare chimicamente la superficie esterna del fago per rendere possibile l’attivazione della terapia fotodinamica è il passo successivo: le esigenze dei due gruppi di ricerca bolognesi si sono quindi incrociate fino a produrre il lavoro recentemente pubblicato. Il prodotto finale è un vettore suicida che viene distrutto dalle specie attive dell’ossigeno – quelle che inducono anche la morte cellulare – che vengono generate in seguito alla fotoattivazione. “Il fago ha poi una caratteristica peculiare, che stiamo investigando: infatti, riesce a superare la barriera ematoencefalica, da sempre uno dei crucci nello sviluppo di terapie che mirano al cervello”, prosegue Danielli. “Inoltre, ci sono evidenze che alcuni fagi possono penetrare negli sferoidi, cioè in quelle masse di cellule in cui molecole terapeutiche anche molto più piccole - come gli anticorpi - non riescono a entrare”.

La fotodinamica è indubbiamente una strategia interessante e con possibili molteplici applicazioni, specialmente se “messa in sicurezza” grazie all’utilizzo di tecniche di targeting specifico, evitando così molti effetti collaterali. Il limite è però la luce stessa, perché non è in grado di penetrare in profondità nel corpo umano. Anche la luce infrarossa, infatti, si ferma a pochi centimetri e questo è un fattore fortemente limitante nell’applicazione clinica di questa tecnica. Le zone di trattamento per cui la terapia fotodinamica è già approvata in Europa sono quelle relative al cavo orale, per ovvi motivi di accessibilità e per evitare interventi chirurgici drastici che potrebbero avere un alto impatto sulla qualità della vita dei pazienti. Un approccio in via di sviluppo che permetterebbe di superare, almeno in parte, questo limite prevede l’utilizzo degli ultrasuoni per indurre l’eccitazione delle molecole, dato che sono in grado di raggiungere una maggiore profondità nei tessuti.

Se nel sistema in vitro, che abbiamo utilizzato, si vedono solo i danni da stress ossidativo diretto, è noto che su modelli in vivo la fotodinamica provoca danni alla vascolarizzazione tumorale e una risposta immunitaria, perché è come se si attivasse una risposta antinfiammatoria nei confronti del tumore”, continua Calvaresi. “È una terapia che può essere pensata di per sé ma anche associata ad altri trattamenti standard, come ad esempio la chemioterapia e l’immunoterapia. Purtroppo, sappiamo che uno dei sistemi di difesa classici delle cellule tumorali è l’ipossia [carenza dell'ossigeno a livello dei tessuti dell'organismo, N.d.R.], mentre nel caso della terapia fotodinamica l’ossigeno è un reagente essenziale per l’induzione dei danni cellulari. Va da sé che ci può essere il rischio che nelle zone non ben ossigenate la terapia non possa avere un effetto importante. C’è però la possibilità che le molecole fotosensibilizzanti in ambiente ipossico non generino più dei radicali all’ossigeno ma calore. In questo caso si parla di terapia fototermica, che porta al riscaldamento della cellula sopra ai 48-50°C, causandone la morte.”

Nelle nanotecnologie la riproducibilità della sintesi dei materiali è un problema enorme, dato che esistono miliardi di nanoparticelle diverse tra loro all’interno della stessa sintesi. “Il fago ci permette di risolvere questo problema perché è controllato a livello genetico”, spiegano gli autori. “Si tratta di particelle identiche a loro stesse e questo ci permette di avere a disposizione una specie di nanoparticella intelligente in grado di fare targeting e con risultati riproducibili. Inoltre, essendo prodotte da batteri - nello specifico, il fago M13 è ospite naturale di E. coli, quindi anche naturalmente presente nel nostro organismo – rientrano nelle opzioni green e sono facilmente producibili”.

Per quanto riguarda le preoccupazioni collegate a questa tecnologia, che per ora è ancora limitata alla sperimentazione in vitro, sono due e le spiega il prof. Alberto Danielli. “Una è di tipo bioetico e riguarda l’utilizzo di un fago che ha un genoma a DNA: alcuni potrebbero obiettare sul tema dell’integrazione del genoma, anche se questo viene distrutto nel momento dell’irradiazione. L’altra è di tipo immunitario. Il fago è estremamente ben tollerato perché naturale ospite di E. coli, ma il corpo umano lo riconosce comunque come estraneo e, nel caso di somministrazioni successive, si induce una risposta del nostro sistema immunitario. Una possibile soluzione è quella di camuffarlo, nascondendolo e rendendolo meno riconoscibile, ma è necessario in questo caso, una ulteriore fase di ottimizzazione della nostra piattaforma dal punto di vista tecnico-scientifico”.

Questo approccio mirato alle cellule tumorali e la possibilità di controllare con estrema precisione l’area in cui attivare la terapia sono caratteristiche che potrebbero contribuire a ridurre drasticamente gli effetti collaterali delle terapie antitumorali. Inoltre, il fago potrebbe essere modificato in altri modi per raggiungere cellule di diverso tipo e anche per combattere la resistenza agli antibiotici. I risultati dello studio bolognese sono solo un primo passo per trasformare il vettore, che possiamo descrivere come un “cacciavite multipunta”, in una piattaforma multiuso da utilizzare per diverse applicazioni di interesse clinico e diagnostico. L’obiettivo per il prossimo futuro è la sperimentazione in vivo, nella speranza di portare il fago anti-cancro un po’ più vicino alla clinica. 

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