Ricerca

Una collaborazione tra ricercatori statunitensi e cinesi sta indagando le possibili applicazioni di cellule sintetiche in medicina e nella preservazione dell’ambiente

Cellule “cyborg” sintetizzate in laboratorio per riparare le ferite, trattare malattie come il cancro o trasportare farmaci direttamente agli organi che ne hanno bisogno. È forse l’ultima sceneggiatura che qualche produttore hollywoodiano spera di trasformare in un successo al botteghino? Al contrario. Si tratta, infatti, di una ricerca scientifica pubblicata lo scorso gennaio sulla rivista Advanced Science da un gruppo di ingegneri dell’Università della California, in collaborazione con i colleghi dell’Istituto di Scienze Biomediche dell’Academia Sinica con sede a Taipei. La notizia potrebbe far drizzare i capelli a quanti associano alla parola “cyborg” le immagini dei protagonisti di film come Robocop e Terminator, o fumetti come Ghost in the Shell. Ma è davvero questo che dobbiamo aspettarci o si tratta di qualcos’altro?

Ovviamente, sebbene in taluni casi possano avvicinarsi e addirittura mescolarsi in maniera ardita, nel caso delle cellule “cyborg” la realtà e la fantasia sono destinate a viaggiare separate. Il timore (o l’auspicio, a seconda dei punti di vista) di trasformarci nell’equivalente di Steve Austin e Jaime Sommers, moderni Adamo ed Eva di una futuristica “era cyboriana”, non ha nulla a che vedere con lo studio appena pubblicato che si riferisce, invece, alla progettazione di nano-macchine biologiche in grado di rispondere agli stimoli prodotti dall’ambiente in cui si ritrovano. Alcuni di questi dispostivi nascono a partire da cellule viventi - da qui l’etichetta di cellule “cyborg”, perché abbinano a una componente biologica una parte meccanica - e potrebbero trovare utilizzo sia in ambito biomedico (come efficienti micro-veicoli di trasporto per geni terapeutici oppure per contrastare la proliferazione di una popolazione di cellule cancerose) che ambientale, con la possibilità di combattere certe forme di inquinamento.

La creazione di micro-cellule in grado di farsi carico del trasporto di molecole farmaceutiche o di ripulire l’ambiente da sostanze inquinanti ha sempre stuzzicato la fantasia dei ricercatori: è sufficiente pensare alla necessità di assorbire le esorbitanti quantità di petrolio che rilasciano in mare le navi protagoniste di drammatici disastri ambientali o agli sviluppi delle tecniche di editing del genoma che richiedono innovativi strumenti per “portare la modifica esattamente dove serve”. Gli studiosi statunitensi e cinesi hanno compiuto un passo avanti dimostrando la possibilità di far convergere un sistema biologico e uno artificiale nella creazione di cellule quasi completamente funzionanti. Nello specifico, essi hanno aggiunto alle cellule batteriche uno speciale polimero artificiale il quale, una volta attivato dalla luce ultravioletta, forma un “hydrogel”, ovvero una specie di matrice artificiale capace di preservare tutte le funzioni della cellula (quelle legate al metabolismo, alla sintesi di proteine strutturali e alla permeabilità delle membrane). In aggiunta a questo, l’hydrogel conferisce alle cellule proprietà nuove quali la resistenza allo stress ambientale, al pH elevato o all’esposizione agli antibiotici.

Oltre alla loro potenzialità di utilizzo come biosensori per combattere le forme di inquinamento dell’ambiente, le cellule “cyborg” potrebbero rivelarsi strategiche per la lotta al cancro. In un esperimento condotto in laboratorio, i ricercatori hanno testato la capacità di queste cellule futuristiche di invadere una colonia di cellule tumorali: i risultati sono stati positivi ed è stata già presentata una domanda di brevetto provvisorio. Al sentir ciò, i fan della produzione letteraria di Stanislaw Lem - che a questi argomenti ha dedicato un romanzo estremamente attuale come 'L’invincibile' - potrebbero sollevare questioni etiche legate al pericolo di una possibile proliferazione delle cellule “cyborg” all’interno di un organismo. Ma la risposta dei ricercatori, affidata alle parole dell’ingegnere biomedico Cheemeng Tan, dell’Università della California, è che “le cellule cyborg sono programmabili e non si dividono”: esse conservano le attività cellulari essenziali e acquisiscono capacità non native ma non sono in grado di riprodursi e crescere di numero. Si tratta di un requisito importante perché, a fare da contraltare all’euforia per la possibilità di sviluppare cellule “speciali” con cui far progredire innovative terapie o tecnologie di bonifica dell’ambiente, resiste il timore che la nuova tecnologia sfugga al controllo umano.

La non riproducibilità delle cellule “cyborg” è fondamentale ma non sufficiente. Il lavoro degli scienziati apre la strada a un innovativo filone di studio, solleva interessanti interrogativi sull’interazione tra le molecole dell’hydrogel e il citoplasma cellulare, e pone nuove domande sui meccanismi di divisione cellulare (non è infatti chiaro cosa impedisca esattamente a tali cellule di replicarsi) a cui occorrerà trovare risposta. La scienza dei materiali sta progredendo in maniera straordinariamente affascinante, come dimostra un’altra pubblicazione apparsa sulla rivista Matter che descrive la realizzazione di un robot capace di passare dallo stato solido a quello liquido - gli appassionati gongoleranno sulle capacità del cinema di ispirare la ricerca - in presenza di stimoli ambientali.

Tuttavia, quello descritto rappresenta solo un punto di partenza e non di arrivo. Molto rimane ancora da capire prima di poter anche solo immaginare di utilizzare le cellule “cyborg”, intanto i ricercatori si stanno adoperando per trovare risposte e studiarne i possibili usi. “Siamo interessati alla bioetica dell’applicazione delle cellule cyborg”, afferma ancora Tan. “Poiché si tratta di biomateriali derivati da cellule che non sono né cellule né materiali”.

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