Ricercatori del Massachusetts Institute of Technology sono ricorsi agli “organi su chip” per definire il ruolo dei vari tessuti coinvolti nella genesi di patologie come la colite ulcerosa.
Individuare i modelli di studio più adeguati per certe malattie non è affatto facile. Specie se ci si inoltra nel campo delle patologie autoimmuni che provocano nel paziente uno stato infiammatorio cronico esteso anche a più organi. Se, poi, uno dei sistemi toccati è quello gastrointestinale, con i miliardi di batteri “buoni” della flora batteria intestinale, il livello di complicazione sale ancora di più. Le delicate interconnessioni tra gli svariati tessuti danneggiati da certe patologie infiammatorie possono essere studiate solo ricorrendo a modelli come quelli degli organoidi che rendano una visione olistica del quadro.
O, meglio ancora, dei cosiddetti “organ-on-chip”, ovvero speciali microchip spesso non più grandi del telecomando del vostro cancello di casa, al cui interno una rete capillare di canalicoli collega delle microcelle nelle quali sono tenute in coltura cellule di vari tipologie di organo, che ne imitano il comportamento e le funzioni. Praticamente si tratta di un organismo in miniatura esposto agli stessi processi di trasporto e assorbimento dei nutrienti di un modello reale. Scambi di ossigeno e processi metabolici si realizzano tra gruppi di cellule specializzate in uno spazio inferiore a quello di un pacchetto di chewing-gum permettendo ai ricercatori di studiare le cellule soprattutto nel contesto dell’evolversi di una malattia.
MALATTIE INFIAMMATORIE E SQUILIBRI DEL SISTEMA IMMUNITARIO
La premessa è d’obbligo per capire perché gli studiosi adottino un tale modello di studio per approcciarsi a patologie quali la colite ulcerosa, il morbo di Crohn, le epatiti autoimmuni o la colangite sclerosante. Grazie al ricorso agli “organ-on-chip”, i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Cambridge hanno potuto studiare il ruolo delle cellule immunitarie circolanti nella colite ulcerosa e in altre patologie infiammatorie più accuratamente che nei modelli animali e, come riportato a marzo sulla rivista Cell Systems, hanno scoperto che gli acidi grassi a catena corta esercitano una funzione importante in queste condizioni infiammatorie.
Questo lavoro parte da lontano e, principalmente, dalla consapevolezza che l’asse fegato-intestino svolge o sovrintende una lunga lista di processi di regolazione omoestatica i quali, se alterati, possono condurre allo sviluppo di varie patologie all’apparenza distinte ma, più in profondità, ben collegate tra di loro. Proprio come le cellule da cui si scatenano. Tuttavia, la mancanza di modelli in vitro particolarmente accurati ha portato Linda Griffith, professoressa di ingegneria biologica e ingegneria meccanica presso l’MIT di Cambridge, a ideare e dare vita a una nuova tecnologia che consentisse di collegare insieme diversi sistemi di organi e farsi una chiara idea dell’influenza del sistema immunitario nella genesi delle patologie del fegato e del colon.
Infatti, al nocciolo di varie malattie autoimmuni c’è l’instaurarsi di uno squilibrio tra le cellule T regolatorie (Treg), un particolare tipo di cellule del sistema immunitario (una sottopopolazione di cellule CD4+) che ha la capacità di regolare o sopprimere l’attacco immunitario, e le cellule Th17 (anch’esse considerate una sottopopolazione di cellule CD4+). Tale squilibrio è stato documentato sia nel caso delle malattie infiammatorie intestinali (IBD) che nelle patologie autoimmuni del fegato e anche nei fenomeni di rigetto d’organo dopo trapianto. Infatti, i pazienti con IBD hanno una probabilità maggiore di sviluppare disturbi autoimmuni del fegato. Va, tuttavia, precisato che nei modelli murini il ruolo delle Th17 è molto differente che nell’uomo per cui l’unico modo per studiarne la funzione nello sviluppo delle patologie sopraelencate era disporre di un modello di patologia più accurato.
ORGAN-ON-CHIP
Grazie alla speciale piattaforma sviluppata, Griffith e i suoi collaboratori hanno potuto collegare insieme cellule di pazienti affetti da colite ulcerosa con cellule epatiche provenienti da pazienti sani osservando che il loro comportamento fisiologico era completamente diverso nel momento in cui la microfluidica del chip permetteva di connettere le colture cellulari. Come a dire che queste cellule, se unite, danno risposte diverse che singolarmente. L’infiammazione nel tessuto intestinale affetto da colite ulcerosa è diminuita quando questo è stato posto a contatto con cellule epatiche sane. Allo stesso tempo, i geni e le vie cellulari coinvolte nel metabolismo e nella funzione immunitaria sono diventati più attivi in entrambi gli organi. Inoltre, l’aggiunta delle cellule Treg e Th17 cambiava ancora il risultato: con queste cellule T l’interazione intestino-fegato aumentava rapidamente il grado di infiammazione, ricreando alcune caratteristiche delle malattie infiammatorie intestinali e delle malattie epatiche autoimmuni.
Infine, i ricercatori hanno deciso di studiare il ruolo degli acidi grassi a catena corta (SCFA) nelle malattie infiammatorie, osservando che l’aggiunta di queste molecole al modello di colite ulcerosa aumentava notevolmente l’infiammazione a livello del fegato e dell’intestino, solamente se le cellule T erano già presenti. Gli SCFA svolgono una miriade di funzioni benefiche tra cui l’incremento della funzionalità della barriera intestinale, o del metabolismo epatico, e la promozione di un certo grado di tolleranza immunologica ma un loro accumulo può influenzare in qualche modo anche le funzioni di alcuni sottopopolazioni di cellule T. Dalle loro osservazioni i ricercatori hanno dedotto che nelle fasi iniziali dell’infiammazione gli acidi grassi a catena corta sono d’aiuto nel contenere l’infiammazione mentre, man mano che questa procede e vengono reclutate più cellule T, il loro ruolo cambia ed essi contribuiscono a sottolineare l’effetto infiammatorio, incrementando la progressione dei disturbi autoimmuni.
Questo lavoro si inserisce nel solco di un progetto più ampio che intende esplorare il coinvolgimento delle relazioni tra intestino, fegato e cervello, contribuendo così a far luce sul ruolo di alcuni metaboliti (come gli SCFA) nello sviluppo di patologie tra cui il morbo di Parkinson. Ma non è il primo che cerca di realizzare un modello di studio di un intero organismo collegando le risposte di cellule estratte da organi diversi: la filosofa del ”human-on-chip” e, più in generale, il settore degli organoidi promette grandi risultati per il futuro. È in quest’ambito che nasce il nuovo centro di ricerca “Queen Mary-Emulate Organs-on-Chips Center”, frutto del connubio tra la Queen Mary University di Londra ed Emulate Inc, nel quale i ricercatori potranno sviluppare modelli d’organo estremamente accurati per i loro progetti di ricerca, specie per lo sviluppo di nuovi farmaci. La collaborazione con Emulate Inc fornirà, inoltre, supporto per la commercializzazione e l’applicazione traslazionale di una tecnologia in rapida espansione (la previsione di mercato è quella di un tasso di crescita annuale del 38-57% nei prossimi cinque anni) dalla quale si attendono brillanti risultati nei prossimi anni.