Organoidi

Gli scienziati del Cincinnati Children’s Hospital sono riusciti a creare un modello di laboratorio che riproduce fegato, pancreas e dotti biliari tra di loro collegati

La creazione di un organo in miniatura è un traguardo ormai tagliato da diversi team di ricerca nel mondo. La sfida, adesso, è dare origine a più organoidi funzionanti, ben collegati tra di loro e armonizzati nello svolgere le loro funzioni, come in un organismo in scala. Pioniere in questo viaggio di esplorazione è Takanori Takebe, del Cincinnati Children’s Hospital Medical Center, giovanissimo ricercatore (soli 32 anni) che, con i suoi studi sugli organoidi, si è fatto conoscere dal mondo intero tanto da farsi segnalare dalla rivista Discover che ha incluso il suo lavoro tra i 100 migliori risultati scientifici del 2013.

Fino ad oggi i modelli cellulari che più si avvicinavano al concetto di ‘sistema’ erano quelli che rispondevano alla filosofia del ‘human-on-a-chip’, un concetto destinato a soppiantare quello, già di per sé innovativo, del ‘organ-on-a-chip’ grazie a cui erano state create le prime colture miniaturizzate di cellule, collegate da micro-canali nei quali scorreva il terreno di coltura che le alimentava. In entrambi i casi si tratta di una tecnologia nuovissima e di profondo interesse ma che si raffronta al lavoro di Takebe allo stesso modo di come un cagnolino robot - che pur scodinzola, abbaia e ciondola meccanicamente per la casa - si rapporta a un cane vero. Con ciò non si tolga il merito ai tanti biologi e biotecnologie che lavorano al perfezionamento dei modelli cellulari on-a-chip ma l’opera di Takebe ha il pregio di proporre un modello cellulare che, per quanto in scala, appare incredibilmente vicino alla realtà. Vediamo come ci è riuscito.

L’articolo pubblicato lo scorso settembre sulla rivista Nature illustra come il team coordinato da Takebe sia ricorso alle cellule staminali pluripotenti indotte, spinte a formare due ammassi sferici, o sferoidi - comprendenti foglietti embrionali tra cui endoderma e mesoderma - presto riconducibili alla parte anteriore (dalla bocca al duodeno) e a quella media dell’intestino umano. Tutto ciò è stato possibile alternando la somministrazione delle giuste proteine - o fattori di crescita - nell’esatto momento in cui le cellule ne avevano bisogno per prendere una direzione di sviluppo o l’altra. Infatti, per certi versi il processo di formazione degli organi - la cosiddetta organogenesi - è analogo alla coltivazione di una pianta ed è dato dall’apporto della corretta proteina al momento opportuno. E, come vien facile immaginare, il punto di partenza della vita è una sfera. Nel caso di Takebe, addirittura, due sfere formatesi molto presto nel processo di sviluppo embrionale e che i ricercatori hanno messo in contatto all’interno di un gel che conteneva i nutrienti adatti alla loro crescita, facendole in tal modo fondere per dar luogo a una parte dell’apparato digerente.

Il resto lo hanno fatto le cellule, seguendo un processo atavico che è quello con cui nasce e si sviluppa un organismo. Gli scienziati sono riusciti a marcare alcune di queste cellule con dei reattivi specifici così da poterle monitorare durante il loro naturale percorso di evoluzione e conversione in strutture sempre più specializzate come fegato, pancreas e dotti biliari. Praticamente Takebe e i suoi collaboratori hanno osservato l’evolversi della vita, che per oltre 70 giorni, ha pervaso questi piccoli ammassi di cellule i quali, presto, hanno iniziato a svolgere le loro funzioni. “Questo è stato del tutto inaspettato” - spiega lo stesso Takebe - “Abbiamo pensato che avremmo dovuto aggiungere ingredienti o altri fattori per sostenere questo processo. Invece, non cercare di controllare questo processo biologico ci ha portato al successo”.

Ma quale è davvero il valore di una ricerca come questa? Il primo, e più ovvio, vantaggio risiede nell’avere a disposizione modelli accurati di organi e, soprattutto, poter osservare tutte le fasi di formazione di una struttura complessa come il fegato o il pancreas, organi che svolgono una miriade di funzioni fondamentali per la vita. Conoscere il processo di evoluzione di un organo significa poter capire dove, eventualmente, si annidino possibili errori che, sulla lunga distanza, possono condurre al cancro o ad altre gravi patologie. Nel 2017, Takebe aveva già studiato la possibilità di usare cellule staminali pluripotenti per creare mini ammassi cellulari che riproducessero la morfologia e la funzionalità di un fegato ma collegare insieme organi diversi ha un significato molto più ampio. “Gli attuali approcci alla medicina rigenerativa del fegato soffrono dell’assenza di connessione al dotto biliare” - afferma Takebe - “Mentre rimane ancora molto lavoro da fare prima di poter iniziare gli studi clinici sull'uomo, il nostro sistema di trapianti multi-organoide è pronto a risolvere questo problema e, un giorno, potrebbe fornire una cura definitiva ai pazienti con malattie epatiche”.

La complessità del modello cellulare che si viene così a creare dalla sincronizzazione delle funzioni di ogni mini-organo accresce vertiginosamente le possibilità di studiare quali variazioni genetiche e molecolari possano influenzare la formazione di un organismo fin dalle prime fasi di gravidanza. Ciò potrebbe anche significare riuscire a diagnosticare in maniera più che precoce la presenza di patologie per le quali è richiesto un trattamento immediato. Inoltre, tali modelli cellulari potrebbero essere una piattaforma di analisi affidabile e precisa degli effetti di farmaci ancora in studio protesa nella direzione di terapie sempre più personalizzate. Infine, rimane aperto il discorso dei trapianti: una frontiera lontana perché gli organoidi non sono ancora pronti per essere usati come ‘pezzo di ricambio’ degli organi umani, ma è innegabile che il loro utilizzo in tal senso potrebbe un giorno salvare milioni di vite.

 

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