L’idea è di stimolare le cellule del sistema immunitario in situ per aggredire il tumore e annientarlo. È in corso, negli Stati Uniti, uno studio clinico su pazienti con Linfoma non-Hodgkin.
In un interessante studio pubblicato ad aprile sulla rivista Nature Medicine i ricercatori del Mount Sinai Hospital di New York sono riusciti ad attivare una delle armi più preziose e difficili da impiegare contro i tumori. Il sistema immunitario. La strategia che ha portato all’ideazione dei vaccini, definiti dal prof. Rino Rappuoli, Medaglia d'Oro al Merito della Sanità Pubblica, “la miglior assicurazione sulla vita dell’umanità” si potrebbe rivelare inestimabile anche per combattere alcuni tumori resistenti ai trattamenti come il linfoma non-Hodgkin.
Per capire il pregio di questa ricerca è opportuno avere chiaro cosa sia un vaccino: sostanzialmente i vaccini sono costituiti da una modesta quantità di virus o batteri inattivati, cioè incapaci di suscitare malattia, ma capaci di suscitare una risposta immunitaria. Fondamentalmente essi educano il sistema immunitario a riconoscere organismi estranei e lo preparano a difendersi. Il sistema immunitario è, infatti, una complessa macchina di difesa che ci protegge dalle infezioni e i suoi componenti hanno il compito di localizzare e distruggere tutto ciò che è non-self, cioè non è riconosciuto come parte dell’organismo. Perciò anche una cellula tumorale. Poiché le cellule neoplastiche espongono sulla loro superficie antigeni specifici, in molti casi diversi da quelli che i linfociti T sono in grado di riconoscere. Negli ultimi anni, armando i linfociti T di antigeni speciali (gli antigeni CAR) i ricercatori sono riusciti a potenziarli e lanciarli così all’attacco di alcuni tumori (le cellule CAR-T funzionano in questo modo).
L’immunooncologia ha compiuto passi da gigante nel tentativo di rendere più forte e aggiornato il sistema immunitario e usarlo per combattere i tumori resistenti al trattamento, quali appunto il linfoma non-Hodgkin. Questo tipo di tumore presenta un’incidenza in continua crescita e, in forza di un’ampia eterogeneità sul piano clinico e istologico, risulta difficile da sconfiggere. Addirittura, le forme a bassa malignità sono paradossalmente più difficili da trattare di quelle ad alta malingità. In questi casi, infatti, se queste forme subiscono un’evoluzione sovrapponibile a quella delle forme ad alta malignità neppure i trattamenti chemioterapici più potenti o gli anticorpi monoclonali sortiscono l’effetto di fermarli. Ecco perché al Mount Sinai di New York un’equipe multidisciplinare ha avviato uno studio clinico di FaseI/II per testare una sorta di vaccinazione in situ, ovvero un trattamento capace di reclutare le cellule del sistema immunitario e dirigerle contro il tumore.
In studi precedenti, era stata valutata l’ipotesi di ricorrere a farmaci agonisti dei Tool-like receptors (TLR), dei recettori che innescano l’attivazione delle cellule dendritiche le quali sono fondamentali per la successiva attivazione dei linfociti T. L’obiettivo era far sì che queste molecole si dirigessero verso il cancro e lì attirassero i linfociti T in maniera tale da fargli distruggere le cellule tumorali. Un obiettivo non facile perché le cellule tumorali utilizzano dei sistemi di blocco per non farsi identificare dal sistema immunitario. Praticamente, come certi aerei militari schermano le onde radar, esse entrano in modalità stealth (invisibile) ed è per tale ragione che sono necessari farmaci immunoterapici in grado di aggirare questa modalità e permettere ai linfociti T di riconoscerle ed eliminarle.
L’immunoterapia con inibitori dei checkpoint ha riscosso grande successo nella terapia di molti tipi di tumori, come quello al polmone, ma perché essa possa funzionare a dovere anche nelle forme tumorali più resistenti, come il linfoma non-Hodgkin, è necessario lanciare un programma di “presentazione incrociata”, usando quindi degli stimolatori delle cellule dendritiche. Nello studio clinico in atto i ricercatori stanno usando due stimolatori: uno (Flt3L) che richiama le cellule dendritiche sul tumore e un altro (poly-ICLC) che le spinge a esporre sulla loro superficie gli antigeni necessari per innescare la risposta, indicando ai linfociti T cosa cercare e distruggere.
L’uso di queste due molecole stimolanti, in combinazione con la giusta dose di radioterapia localizzata, potrebbe rivelarsi in grado non solo di fermare la crescita del tumore ma anche di favorirne la distruzione. Lo studio clinico, di Fase I/II e in aperto, prevede l’arruolamento di 30 pazienti affetti da linfoma non-Hodgkin sia non trattati precedentemente (coorte A) sia sottoposti a trattamenti precedenti (coorte B) a cui sono risultati refrattari o in seguito a cui sono incorsi in recidive. Gli obiettivi, oltre al tasso di efficacia di questa strategia, consistono nella valutazione della sicurezza e della tollerabilità del trattamento. Fino ad oggi l’innovativa combinazione terapeutica è stata sperimentata su 11 pazienti con risultati soddisfacenti che lasciano ben pensare che questo modello possa essere applicato anche ad altre forme di tumore. “L’approccio vaccinale in situ potrebbe avere ampie implicazioni per diversi tipi di tumore” – dichiara il prof. Joshua Brody, Direttore del programma di Immunoterapia del Linfoma presso la scuola di medicina del Mount Sinai Hospital di New York e tra gli autori della pubblicazione – “Questo metodo potrebbe inoltre far aumentare il successo di altre terapie immunoterapiche come il blocco dei checkpoint”.
Infatti, in precedenti esperimenti condotti sul modello animale, i topi trattati con questa terapia sono diventati sensibili al trattamento con inibitori dei checkpoint. La combinazione delle due forme ha condotto a tassi di remissione di circa l’80%, il doppio rispetto a quanto accade con altre terapie. Un risultato così straordinario da essere potenzialmente utile, oltre che per i linfomi, anche per i tumori del seno, della testa e del collo, del fegato e delle ovaie.
Come già affermato per quanto riguarda altri studi clinici in questa fase, si tratta di risultati che necessitano di approfondimenti ma che confermano in maniera solida la necessità di ricorrere a combinazioni di terapie mirate. Si è già visto che l’uso delle CAR-T insieme al trapianto può dare esiti più che soddisfacenti contro certi tipi di tumore. In questo caso, la combinazione di radioterapia e immunoterapia potrebbe far ben sperare, prolungando la sopravvivenza dei pazienti e contrastando l’avanzamento di una malattia la cui prognosi è spesso infausta.