Raffaella Di Micco

Robertson Stem Cell Investigator Award, per la prima volta in assoluto il prestigioso premio americano arriva in Italia. Alla dott.ssa Raffaella Di Micco, del SR-Tiget di Milano

“È stata una grandissima soddisfazione, perché è la prima volta che questo premio viene assegnato a un ricercatore che lavora in Italia. Di solito vengono premiati studiosi di Harvard o Stanford, negli Stati Uniti, ma stavolta è andata diversamente”, afferma, onorata, Raffaella Di Micco, ricercatrice e alla guida di un team di ricerca presso l’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget). “Hanno premiato me, finanziando la mia ricerca con 1,5 milioni di dollari; questo significa che hanno riconosciuto la mia carriera, ma anche il valore scientifico della proposta di ricerca e l’autorevolezza dell’istituto in cui lavoro, che è un’eccellenza mondiale nel campo delle terapie geniche”.

Il Robertson Stem Cell Investigation Award, infatti, è un prestigioso premio, promosso dalla New York Stem Cell Foundation e dedicato agli scienziati considerati ‘innovatori’ perché in grado di aprire nuove strade nel campo della ricerca scientifica sulle cellule staminali. Questo è sicuramente il caso di Raffaella Di Micco. Nata a Napoli nel 1980, si è laureata nel 2003 in Biotecnologie mediche presso l’Università Federico II di Napoli e ha conseguito, nel 2008, un dottorato di ricerca in Medicina Molecolare presso la European School of Molecular Medicine dell’Istituto Firc di Oncologia molecolare di Milano. Ha svolto il suo post dottorato alla New York University, negli Stati Uniti, e oggi è quello che si definisce “un cervello di ritorno”. Nel 2015, infatti, grazie alla Fondazione Telethon, è tornata in Italia per fondare il suo gruppo di ricerca.

“La proposta con la quale abbiamo vinto è all’avanguardia, innovativa e anche un po’ rivoluzionaria” dichiara, orgogliosa, la dott.ssa Di Micco. Da anni il suo team si occupa di studiare i meccanismi di regolazione della senescenza delle cellule ematopoietiche (quelle cellule che danno origine ai vari elementi del sangue), sia durante processi fisiologici come l’avanzare dell’età, sia in condizioni di stress o danno al DNA. In particolare, il suo gruppo indaga come le cellule staminali ematopoietiche rispondano alla rottura del DNA indotta dalle tecniche di editing genomico, ovvero l’ultima frontiera nel settore della terapia genica, che permette di intervenire in maniera precisa per trovare e correggere gli errori, agendo direttamente sulla doppia elica.

“Stiamo cercando di capire come le cellule staminali ematopoietiche rispondano alla manipolazione genetica, per poter sviluppare dei nuovi protocolli che ne migliorino la funzionalità. Usiamo l’editing genomico come uno strumento per poter studiare la risposta delle cellule staminali, in particolare la tecnologia Crispr-Cas9, che quest’anno ha portato le sue due inventrici al Nobel per la Chimica”, spiega Di Micco. “Questo processo di editing, tuttavia, può risultare particolarmente difficile se applicato alle staminali ematopoietiche, perché si tratta di cellule tendenzialmente quiescenti, cioè con un basso grado di proliferazione, e capaci di andare facilmente incontro a morte o arresto del ciclo cellulare in caso di danni al DNA. Per questa ragione, uno degli obiettivi della nostra ricerca futura sarà trovare nuovi target molecolari e nuovi approcci per migliorarne la funzionalità”.

“C’è stato un primo studio, in particolare, che ha fornito le basi per formulare la proposta di ricerca con la quale ho fatto domanda per questo finanziamento”, racconta Raffaella Di Micco facendo riferimento a un lavoro del 2019. Il suo team, infatti, proprio l’anno scorso ha pubblicato su Cell Stem Cell uno studio (ne abbiamo parlato qui) in cui veniva messa in luce la funzione della proteina p53, il ‘guardiano del genoma’: oncosoppressore che entra in campo quando il DNA viene danneggiato. La tecnologia Crispr-Cas9, tagliando i filamenti di DNA, spinge questa proteina ad attivarsi, scatenando come risposta l’esaurimento precoce delle cellule coinvolte e una limitata proliferazione delle stesse. “Abbiamo trovato il modo di inibire temporaneamente la p53, per poter permettere l’attecchimento delle progenitrici ematopoietiche, e durante lo studio non abbiamo rilevato nessun segno di trasformazione tumorale. Tuttavia, la p53 rimane sempre il ‘guardiano del genoma’, per cui la sua inibizione, anche se transitoria, potrebbe produrre qualche incertezza in più”, spiega la ricercatrice del SR-Tiget.

“In tutti gli studi di cui ci siamo occupati abbiamo sempre verificato che non ci fossero rischi e abbiamo concluso che le tecniche adottate non sono in grado di mettere in moto processi cellulari capaci di aumentare l’incidenza di cancro. La certezza assoluta, però, è un’altra cosa. Se riuscissimo a trovare altri target molecolari - magari a valle della risposta della p53 - che, una volta manipolati, non comportano alcun rischio di sviluppare tumori, sarebbe preferibile”, sottolinea Raffaella Di Micco. “In fondo, è di questo che ci occupiamo: di ricerca di base. Ci sono tanti altri processi biologici e tanti altri meccanismi che aspettano solo di essere scoperti. Ad esempio, oltre a CRISPR, abbiamo intenzione di sperimentare altre tecniche di editing genetico che non agiscono mediante il taglio del doppio filamento di DNA, come i base editor o il prime editing, per capire se hanno un impatto diverso sulle staminali del sangue”.

Il cuore della ricerca di base, infatti, sta proprio nell’esplorazione. Viene condotta senza un particolare obiettivo pratico a priori, anche se i suoi risultati possono avere ricadute applicative inaspettate e importanti. L'espressione ‘di base’ indica che, attraverso la generazione di nuovo sapere, questo tipo di ricerca può fornire le fondamenta per ulteriori studi, con esiti concretamente utilizzabili nel medio-lungo termine. Raffaella Di Micco ha, senza dubbio, la giusta curiosità, l'interesse e l'intuito capaci di portarla a questo tipo di scoperte. “Con i fondi ottenuti grazie all’assegnazione del premio intendiamo continuare a occuparci di ricerca di base. Il nostro progetto non si vuole focalizzare su una patologia specifica, perché siamo convinti che, solo in questo modo, le nostre scoperte possano essere utilizzate in maniera trasversale. Noi cerchiamo di capire quali sono i meccanismi molecolari coinvolti e li andiamo a modulare. Solo in un secondo momento si penserà all’applicazione pratica, all’interno di quegli approcci terapeutici e clinici per cui il nostro istituto è leader nel mondo. Per fare questo lavoreremo a stretto contatto anche con altri gruppi di ricercatori, come il team del professor Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon, con il quale abbiamo già collaborato in passato”.

Credo molto nella ricerca di base”, conclude la dott.ssa Di Micco. “In una piramide non è importante solo la punta che svetta in alto ed è visibile da molto lontano, ma anche le fondamenta che la tengono in piedi”.

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