Un protocollo innovativo per potenziare l’efficacia e la sicurezza di questa tecnica e la sua applicazione alle cellule staminali del sangue: ne parliamo con il dott. Samuele Ferrari
Piccoli errori nel DNA possono essere responsabili di malattie genetiche più o meno gravi e, fino a qualche anno fa, correggere questi errori sembrava fantascienza. Ora, con l’avvento delle nuove tecniche di editing genetico e terapia genica, la medicina di precisione è protagonista di molte ricerche e le applicazioni cliniche stanno aumentando giorno dopo giorno. In uno studio pubblicato il 29 giugno su Nature Biotechnology, un gruppo di ricercatori dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) guidato da Luigi Naldini è riuscito a superare un ostacolo all’applicazione dell’editing genetico alle cellule staminali ematopoietiche, bersaglio ideale nel caso di immunodeficienze primitive e altre patologie ereditarie che colpiscono le cellule del sangue.
L’editing genetico permette di intervenire sui singoli errori contenuti nel DNA, correggendo le mutazioni correlate alle malattie genetiche. A differenza della terapia genica, in cui il gene corretto viene consegnato dall’esterno e si inserisce in modo casuale nel genoma, l’editing genetico corregge il difetto direttamente sul DNA, mantenendo la posizione e la regolazione fisiologica. Le due tecniche sono diverse e non possono essere applicate in modo casuale, perché a volte è fondamentale mantenere la regolazione fisiologica, ad esempio nei casi in cui viene colpito un gene coinvolto in processi cellulari fondamentali quali la crescita cellulare. È una tecnica promettente e, anche se le applicazioni cliniche sono ancora poche, la ricerca avanza velocemente.
Applicare l’editing genetico alle cellule staminali ematopoietiche (Hematopoietic Stem Cells, HSC) permetterebbe quindi di correggerle in modo diretto, ma occorre un procedimento efficace e sicuro per poter anche solo pensare di utilizzarlo sugli esseri umani. “Questo processo di editing genetico, basato su Crispr-Cas9, era particolarmente inefficiente nelle cellule staminali ematopoietiche, essendo cellule tendenzialmente quiescenti (cioè poco propense alla proliferazione, NdR) e con tendenza ad andare incontro ad arresto o morte cellulare in caso di danno al DNA. Grazie a questa ricerca abbiamo sviluppato un protocollo migliorativo con il quale abbiamo raggiunto un’efficienza più elevata che permette di ottenere, in prospettiva, risultati migliori a livello clinico”, spiega Samuele Ferrari, PhD presso la Gene Transfer Technology and New Gene Therapy Strategies Unit all’SR-Tiget e primo autore dello studio assieme ad Aurelien Jacob, anche lui PhD nello stesso gruppo di ricerca. “Durante il processo di editing, infatti, la forbice molecolare CRISPR taglia il DNA: questo induce una risposta negativa nelle staminali ematopoietiche. Se però viene aggiunto, mentre avviene la correzione, il cocktail proteico di nostra invenzione, il processo diventa più efficiente e sicuro”.
Rispetto allo studio pubblicato a marzo dell’anno scorso in collaborazione con il gruppo della dott.ssa Raffaella Di Micco, questo rappresenta una sorta di proseguimento naturale. In quel caso i ricercatori avevano identificato uno dei limiti dell’editing genetico sulle HSC ed erano riusciti a superare questo limite parzialmente, utilizzando una parte del cocktail proteico protagonista di questo studio. “In questo studio”, prosegue Ferrari “abbiamo identificato un altro limite intrinseco della procedura, limite che risiede proprio nella quiescenza di queste cellule. Aggiungendo un altro ingrediente al cocktail proteico, però, siamo riusciti a rendere significativamente efficiente la procedura. Il cocktail proteico serve a inibire temporaneamente l’attività di p53, una proteina fondamentale nella regolazione della proliferazione cellulare”. p53, la cosiddetta “guardiana del genoma” agisce come inibitore della crescita e della proliferazione cellulare in caso di danni al DNA e altre condizioni patologiche. Un suo malfunzionamento è stato associato a diversi tipi di tumori. Inibire per un tempo limitato l’attività di p53 può essere una soluzione efficace e, essendo un’inibizione limitata nel tempo, sicura.
Ma lo studio non si ferma a questo. Infatti, per la prima volta, è stata sviluppata una tecnica molecolare per individuare le cellule geneticamente modificate. “La tecnica prevede l’utilizzo di ‘codici a barre’ molecolari, diversi per ciascuna cellula modificata, in modo da poterle seguire come se fossero identificate da diversi colori. Questo perché, oltre alla sequenza guida di CRISPR, viene aggiunta una breve sequenza che definisce in modo univoco le cellule corrette”, spiega Ferrari. “Identificando quanti ‘colori’ ci sono nel tessuto si può capire quanti cloni per ciascuna cellula modificata si sono prodotti, tenendo sotto controllo la proliferazione cellulare. Questa tecnica si chiama clonal tracking e l’obiettivo è quello di avere tanti colori diversi - cioè tanti cloni diversi - perché questo indica una maggiore efficacia dell’editing genetico e più sicurezza.” Questo perché il ‘codice a barre’ ha permesso anche di valutare se l’inibizione di p53 potrebbe causare qualche anormalità nel numero di cloni delle cellule modificate. Ad esempio, se fosse presente un solo colore in abbondanza, questo segnalerebbe che qualcosa è andato storto nel processo.
“Per ora gli studi sono stati fatti su cellule umane trapiantate in modelli murini, sia con vettori adeno-associati che con vettori lentivirali integrasi-difettivi, ma per l’applicazione clinica servirà ancora qualche anno e ulteriori studi. Proprio per questo, stiamo collaborando con l’azienda Genespire”, conclude il ricercatore. La biotech milanese Genespire è, infatti, dedicata allo sviluppo di terapie geniche per pazienti affetti da malattie genetiche, in particolare immunodeficienze primarie e malattie metaboliche ereditarie, ed è stata fondata a marzo 2020 dal prof. Luigi Naldini e dal dott. Alessio Cantore.