Fyodor Urnov

A cosa serve saper editare qualsiasi mutazione, se il via libera richiede ogni volta anni di attesa e milioni di dollari? La scomoda verità di Fyodor Urnov al World CRISPR Day

Il genetista di Berkeley è stato un pioniere dell’era avanti CRISPR ed è tuttora una delle voci più influenti del dopo CRISPR. È stato lui a inventare, insieme a due colleghi, l’espressione “editing genetico”, portandola sulla copertina di Nature nel 2005. La sua ultima lezione alla conferenza internazionale su CRISPR del 20 ottobre 2021 ha avuto l’effetto di una scossa. Urnov infatti ha dedicato solo pochi minuti a celebrare i successi ottenuti fin qui. Si è soffermato, invece, sui casi di due pazienti, portatori di mutazioni rarissime, che in teoria avrebbero potuto beneficiare dell’editing ma non hanno avuto questa chance. Perché nella pratica non esistono le condizioni per editare tutti i malati editabili. 

Urnov la chiama la sfida dell’N=1. Consiste nel dispiegare tutta la potenza della nuova tecnologia per la correzione del DNA anche se il beneficiario è una singola persona. Le società biotech stanno ottenendo ottimi risultati per alcune tra le malattie rare più comuni, come l’anemia falciforme. Ma non potranno mai farsi carico delle patologie ultrarare, facendo una corsa contro il tempo per salvare una vita per volta. Prendiamo il caso di Karly Koch: questa ragazza è cresciuta tra gravi sofferenze a causa di una patologia immunitaria monogenica, prima di ricevere finalmente un trapianto. Quando la sua storia è arrivata sul New York Times era il 2015. CRISPR non aveva ancora debuttato in clinica, ma lo aveva fatto un’altra tecnologia per l’editing genetico: le dita di zinco. In effetti, i primi trial con cellule editate sono del 2010. Dunque, secondo Urnov, eravamo in grado di correggere la mutazione di Karly già nel 2011. 

“Sono un editor, ho fatto editing per 19 anni. Quando leggo una storia così devo aprire il browser e vedere la sequenza”, ha detto il genetista di origine russa, mostrando una slide con il gene interessato (DOCK8) e i suoi polimorfismi. Per riparare ogni possibile mutazione basta fornire all’enzima chiave di CRISPR l’apposita guida di RNA, se si vuole fare la ricombinazione omologa si aggiunge lo stampo. Ma per ogni guida bisogna presentare all’autorità competente una richiesta ad hoc (negli Usa si chiama IND, che sta per “investigational new drug”, ovvero “nuovo farmaco sperimentale”) e questo ha costi elevati in termini di tempo e denaro. L’Innovative Genomics Institute fondato da Jennifer Doudna, dove anche Urnov lavora, è l’unico ente accademico ad avere una pratica IND aperta, e non è un caso che il bersaglio sia l’anemia falciforme, su cui si stanno concentrando anche diverse compagnie biotech. 

Ben diversa è la situazione delle malattie ereditarie del sistema immunitario. “Ce ne sono 446 note, con manifestazioni molto diverse tra loro. Eppure, per quanto ne so, ci sono zero IND” ha spiegato Urnov. Alcuni gruppi di ricerca sono al lavoro per rimediare, ma la disparità è evidente e profonda. Trasformare un’idea promettente in un business sostenibile è difficile. “Il fatto che in linea di principio l’editing rappresenti un approccio adatto alla maggioranza delle malattie monogeniche non significa che qualche biotech si occuperà concretamente della malattia numero 823. Le condizioni monogeniche sono oltre 5000 nel database OMIM”. Nel migliore scenario possibile per arrivare all’IND ci vogliono oltre tre anni e più di 6 milioni di dollari, il che è incompatibile con la promessa di editare ogni mutazione.

Un altro caso che ha colpito Urnov è stato descritto recentemente sul Journal of Experimental Medicine. Riguarda un bambino apparentemente sano alla nascita, che a tre mesi è stato ricoverato e a dieci mesi ha subito un trapianto, per poi morire trenta giorni dopo. A ucciderlo è stata una lettera sbagliata nel gene SLP76. Urnov mostra la sequenza e poi edita mentalmente l’errore. “Posso assicurarvi che esiste una strategia robusta di editing che avrebbe potuto essere impiegata”, con la variante classica di CRISPR che recide entrambi i filamenti del DNA o con il “prime editing” che corregge senza tagliare. Quindi lo scienziato mostra una timeline di quello che si sarebbe potuto fare per salvare il neonato, va dalla diagnosi alla prima dose nel giro di due mesi. Ma è una timeline dei sogni se tutti i reagenti devono soddisfare le cosiddette “norme di buona fabbricazione”, se la sicurezza deve essere testata nei topi, se prima di essere somministrate le cellule devono essere crioconservate, senza contare i tempi della burocrazia. “La verità è che arrivare in due mesi a un trattamento CRISPR per salvare un bambino è impossibile e questo è inaccettabile per tutti: familiari, medici, ricercatori, regolatori”. L’attuale quadro di regole funziona benissimo per la ricerca biotech, e dunque per i trattamenti con un numero consistente di pazienti. “Ma per N=1 serve un framework nuovo, è una questione di giustizia sociale”, afferma citando la poesia recitata da Amanda Gorman alla cerimonia di insediamento del Presidente Biden. "Merge mercy with might and might with right". Ma cosa significa coniugare misericordia, potenza e giustizia quando si parla di editing? 

Vuol dire bilanciare innanzitutto rapidità e sicurezza, tenendo conto del fatto che la gran parte delle malattie monogeniche si manifesta nell’infanzia. Passare mesi a testare anche i reagenti meno importanti significa arrivare al traguardo quando ormai è troppo tardi, il bambino purtroppo è già morto. Un esempio da seguire c’è, è quello di Timothy Yu che ha sviluppato un farmaco su misura (oligonucleotide antisenso) per una piccola paziente di nome Mila. Dall’identificazione della mutazione alla prima dose sono passati dieci mesi, un risultato “sbalorditivo” a detta di Urnov, che sta ispirando un cambiamento nel campo delle malattie ultrarare.

Occorre semplificare, standardizzare, integrare, scalare. Liberare il campo dai fardelli delle regolazioni passate, che avevano senso in altre circostanze ma non ora con l’editing di mutazioni rarissime in un contesto no-profit. Alcuni avanzamenti tecnici sono attesi con urgenza, ad esempio servono test rapidi di efficacia e sicurezza all’altezza del terzo millennio al posto di quelli sul topo. “Se sono un sognatore non sono il solo”, dice Urnov citando John Lennon. All’Innovative Genomics Institute è in atto uno sforzo, guidato da Alex Marsan, per portare CRISPR ai pazienti pediatrici con gravi malattie autoimmuni. Potrebbe essere questo il primo banco di prova della filosofia CRISPR per N=1. 

Oggi nella galleria dei pazienti simbolo di CRISPR ci sono Victoria Gray che è stata trattata per una malattia del sangue (anemia falciforme), Patrick Doherty per una patologia del fegato (amiloidosi da transtiretina), Carlene Knight per una grave compromissione della vista (amaurosi congenita di Leber). Ma quanti altri esseri umani N=1 aggiungeremo alla galleria dei soggetti trattati da qui al 2027? La risposta di Urnov è: “Dipende da noi”. L’ispirazione può venire dalla ricerca no-profit di University of Penn, Ucla, University College London, Tiget-San Raffaele e altri ancora, che hanno regalato al mondo le prime terapie geniche. In futuro CRISPR potrà essere usata per le malattie cardiovascolari, oncologiche, neurodegenerative, e qui ci vorranno le biotech e big pharma, sostiene Urnov. Le malattie N=1, invece, sono lo spazio dei fondi pubblici e delle donazioni filantropiche. Ma non si tratta di un gioco a somma zero, perché le grandi sperimentazioni con sponsor privati forniranno dati utili per i trial N=1 e viceversa. Dovrà essere l’unione a fare la forza: CRISPR per tutti, CRISPR per uno.

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