CRISPR, chirurgia fetale, Tippi MacKenzi

Facciamo il punto sui progressi di Tippi MacKenzie, la pioniera che vuole sposare editing genomico e chirurgia fetale per curare le malattie genetiche direttamente in utero 

L’obiettivo è trattare i nascituri il più precocemente possibile, prima che le patologie causino danni irreversibili. Ma l’ambizione è farlo senza modificare il DNA in modo ereditabile, ovvero prendendo di mira solo i tessuti bersaglio ed evitando le cellule sessuali. L’editing genomico fetale, dunque, si differenzia dall’editing embrionale, che tante polemiche ha sollevato in anni recenti. Il modo migliore per capire quanta strada ha fatto e quanta ne resta da fare è raccontare la storia della scienziata più impegnata in questa ricerca di frontiera. L’occasione è offerta dalla rivista STAT che dedica a Tippi MacKenzie un lungo articolo, in cui la biografia della protagonista si intreccia a un’approfondita ricognizione del settore.

La chirurgia fetale rappresenta uno dei club più esclusivi della medicina, per usare le parole dell’autrice dell’articolo, Megan Molteni. Basti pensare che negli Usa circa 300.000 chirurghi esercitano la professione, ma solo un centinaio operano su pazienti non ancora nati. Si può dire che la disciplina sia nata nei primi anni ’80 all’ospedale pediatrico dell’Università della California con sede a San Francisco, con i pionieristici interventi eseguiti da Michael Harrison, per correggere le malformazioni direttamente nell’utero. La culla di CRISPR è situata non lontano da lì, a Berkeley, dove lavora Jennifer Doudna, inventrice (insieme alla francese Emmanuelle Charpentier) delle forbici molecolari premiate con il Nobel nel 2020. Oggi unire le due idee è la sfida della chirurgia genomica fetale, il cui baricentro può essere collocato proprio a San Francisco, presso il Centro per la medicina di precisione materno-fetale. A dirigerlo è la pioniera di questa frontiera, una donna di origine turca arrivata negli Stati Uniti all’età di 11 anni insieme ai genitori (il padre faceva l’informatico, la madre l’insegnante di inglese). Tippi – che, prima di sposarsi, di cognome si chiamava Ciçek – sembrava destinata a diventare una pianista professionista, ma agli spartiti ha preferito un futuro in sala operatoria.

Dapprima ha deciso di applicare il tocco delicato e preciso delle sue mani alla chirurgia pediatrica e fetale. Poi ha avuto l’idea di sfruttare le cellule staminali dei genitori per curare i feti. In effetti sarà proprio lei a lanciare il primo studio clinico di questo tipo nel mondo, nel 2017, per una grave forma di talassemia. Sempre a MacKenzie si deve un’altra pionieristica sperimentazione (anche questa tuttora in corso) per fornire ai feti con una malattia rara, la mucopolisaccaridosi, un enzima salvavita attraverso la vena uterina. Da molti anni la chirurga-scienziata si interessa anche di terapia genica, coltivando l’ambizione di tagliare e cucire il DNA dei nascituri invece dei loro tessuti. A rallentare questo tipo di interventi, finora, sono state una serie di preoccupazioni, in buona parte legate ai virus usati come navette per trasportare i geni terapeutici. Nel frattempo almeno alcuni di questi timori sono stati ridimensionati dall’invenzione di CRISPR e dalla possibilità di impacchettare le molecole chiave all’interno di nanoparticelle lipidiche.

Gli esperimenti sul modello animale hanno iniziato a dare risultati incoraggianti già nel 2018, quando un gruppo di ricerca della Pennsylvania, guidato dal chirurgo Bill Peranteau e dal genetista Kiran Musunuru, ha corretto con successo un grave difetto genetico in alcuni feti di topo. Gli esemplari trattati in utero erano cresciuti meglio degli animali trattati poco dopo la nascita, tanto che i National Institutes of Health hanno deciso di finanziare studi di editing genomico pre e post-natale per tre malattie (fenilchetonuria, tirosinemia e sindrome di Hurler). Ma una domanda non aveva ancora ricevuto una risposta esaustiva: è possibile garantire che la correzione genetica resti confinata alle cellule del corpo senza interessare anche le ovaie o i testicoli del nascituro?

Usando delle proteine fluorescenti come traccianti, MacKenzie ha seguito il viaggio dei vettori virali in un'altra specie animale, la pecora. I tessuti desiderati si sono illuminati come previsto ma, in misura minore, è accaduto anche alle gonadi. I dati, non ancora pubblicati ma già presentati a conferenze e meeting, mostrano che nelle gonadi maschili l’editing si è fermato solo alle cellule di sostegno, senza toccare le cellule progenitrici degli spermatozoi. Ma lo stesso non si può dire delle cellule destinate a dare origine agli ovociti, che invece sono risultate parzialmente alterate. Probabilmente l’accessibilità e la tolleranza alle modificazioni genetiche che rendono l’ambiente uterino tanto adatto per l’editing somatico aumentano anche le probabilità di alterare inavvertitamente la linea germinale, soprattutto quella femminile.

Questa brutta sorpresa ha spinto la scienziata a convocare un gruppo di scienziati e bioeticisti, per discutere l’entità del rischio e le possibilità di minimizzarlo. Modificare il genoma delle cellule sessuali, introducendo mutazioni ereditabili dalle future generazioni, è considerato da molti un tabù. Ma il rischio di violarlo in modo non intenzionale andrebbe soppesato con i benefici attesi per i feti portatori di malattie mortali. Oltretutto potrebbe trattarsi di un rischio piuttosto remoto, come evidenzia STAT riportando i ragionamenti della bioeticista Alta Charo: nel corso della vita una donna produce in media un milione di ovociti, ipotizzando che qualcuno di essi risulti “editato” in modo non intenzionale, quali probabilità ci sono che proprio quell’ovocita venga fecondato, si impianti nell’utero e si sviluppi in un individuo che avrà a sua volta dei figli?

Attualmente a San Francisco si lavora per capire perché le cellule sessuali femminili sembrano essere più esposte al rischio di quelle maschili, per valutare se l’uso di particelle lipidiche al posto dei vettori virali può scongiurare il coinvolgimento di ovociti e spermatozoi, e per individuare le finestre temporali migliori per intervenire durante lo sviluppo fetale. Potrebbero volerci anni e qualcuno continuerà a pensare che il traguardo sia troppo ambizioso, ma l’anima della ricerca di frontiera è proprio questa: guardare oltre, per iniziare a costruire il futuro su basi nuove. 

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