Le risposte immunitarie sono un problema per l’utilizzo clinico della terapia genica, ma la ricerca sta cercando un modo per aggirarle
Negli ultimi anni la terapia genica ha fatto passi da gigante, sia dal punto di vista della ricerca che per il via libera da parte degli enti regolatori. Basti pensare che dal 2012 al 2016 sono state approvate 3 terapie geniche, mentre dal 2018 ad oggi le approvazioni sono state ben 12, con un focus particolare per alcune forme di tumori e per delle rare patologie genetiche. Attualmente sono 12 le terapie geniche autorizzate in Europa e in commercio, di cui 7 disponibili anche in Italia. I risultati clinici si susseguono, la ricerca freme e le sperimentazioni cliniche aumentano, ma le risposte immunitarie alle terapie, con i loro effetti collaterali, anche gravi, potrebbero fungere da freno a questo processo. Questa preoccupazione è stata un argomento al centro del meeting annuale dell’American Society of Gene and Cell Therapy (ASGCT), come raccontato in un recente articolo pubblicato su Nature.
La storia di Jesse Gelsinger (raccontata anche nella seconda puntata del podcast “Reshape – un viaggio nella medicina del futuro), protagonista di uno dei primi tentativi di terapia genica risalente ormai a più di 20 anni fa, è stato uno dei punti fondamentali nella storia dello sviluppo delle terapie avanzate. Nel 1999 gli venne somministrata una terapia genica sperimentale per trattare il deficit di ornitina transcarbamilasi, un difetto genetico che colpisce il fegato e causa l’incapacità di metabolizzare l’ammoniaca. Purtroppo, è tristemente noto al pubblico per essere il primo decesso in una sperimentazione clinica con la terapia genica. La sicurezza è una delle principali preoccupazioni quando si sviluppa un nuovo farmaco, ancor di più nel campo delle terapie geniche: il caso di Gelsinger ha posto un duro segnale di stop di fronte alla ricerca e un allontanamento degli investitori dal settore.
Da tempo i ricercatori impegnati su questo fronte temono che le risposte immunitarie possano rendere meno efficaci le terapie geniche. Queste ultime si basano sull’utilizzo di virus, che fungono da vettori per il trasporto del materiale genetico all’interno delle cellule: se il ricevente avesse già anticorpi contro quel virus, la risposta immunitaria potrebbe ostacolare il trattamento. Questo è il motivo per cui la partecipazione agli studi clinici è limitata alle persone che non hanno già sviluppato anticorpi contro il vettore da usare.
Tra i più utilizzati ci sono i virus adeno-associati (AAV), un gruppo di piccoli virus che sono stati studiati per l’uso in questo campo da decenni e che già hanno trovato applicazione in alcune terapie geniche approvate, tra cui onasemnogene abeparvovec (Zolgensma) e voretigene neparvovec (Luxturna). Come raccontato nell’articolo, il National Institutes of Health (NIH) statunitense ha lanciato un programma per studiare i vettori AAV, nella speranza di sviluppare una piattaforma sicura in cui si possa semplicemente cambiare il “carico” terapeutico, cioè il gene da trasferire, per evitare di dover condurre grandi studi clinici per stabilire la sicurezza della terapia.
Gli anticorpi prodotti nella risposta infiammatoria dopo l’incontro con un virus potrebbero stimolare la produzione di molecole infiammatorie, attivare percorsi di morte cellulare e innescare processi biochimici che potrebbero portare le cellule contenenti l’AAV alla distruzione. Sono diversi gli sforzi per affrontare questo argomento da diversi punti di vista, incluso lo studio di vettori non virali come le nanoparticelle. Francis Collins, oltre al suo discorso su terapia genica e malattie rare, è intervenuto anche su questo argomento, confrontandosi con gli altri ricercatori specialmente sulle dosi di AAV utilizzate. Questo perché è stato rilevato che, quando vengono usati quantità maggiori di vettore, i rischi aumentano.
Gli approcci in fase di studio sono molteplici e coinvolgono laboratori e ricercatori di tutto il mondo, sia del settore pubblico che privato. Oltre alle modifiche sul virus e le sue modalità di uso, c’è anche chi sta lavorando sui modi per sopprimere le risposte immunitarie, come ad esempio il gruppo di Anastasia Conti dell’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano.
Un altro nodo da affrontare sarà quello del monitoraggio dell’infiammazione in aree del corpo di difficile accesso, come ad esempio il cervello. Come spesso accade, la soluzione sarà probabilmente quella di affiancare diverse strategie affinché si ottenga il risultato ambito, nella speranza di ampliare ulteriormente le possibilità offerte dalle terapie geniche.