Gli organoidi, creati dalle staminali dei pazienti, hanno permesso di studiare un meccanismo epigenetico alla base della malattia. Potrebbero aprire la strada allo sviluppo di terapie personalizzate
La vita non è stata sempre facile per Arthur Hatt: a 9 anni ha scoperto di avere la malattia di Crohn, una patologia infiammatoria cronica dell’intestino. I sintomi sono comparsi quando era ancora un bebè: mal di pancia, diarrea persistente, stanchezza e perdita di peso hanno rubato ad Arthur gli anni più belli dell’infanzia, costringendolo a lunghi periodi a letto e ad assenze da scuola. Oggi Arthur ha 11 anni e grazie ai farmaci sta riprendendo in mano la propria vita. È uno dei 160 bambini adolescenti che hanno preso parte allo studio Translational Research in Intestinal Physiology and Pathology (TRIPP) presso l'Università di Cambridge e che hanno donato parte delle loro cellule per far crescere dei “mini-intestini” in laboratorio e comprendere meglio la malattia di Crohn. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Gut.
VIVERE CON LA MALATTIA DI CROHN
Sono circa 150.000 in Italia e 2 milioni nel mondo le persone che vivono con la malattia di Crohn, una patologia infiammatoria cronica intestinale. È considerata una malattia autoimmune, in cui il sistema immunitario attacca erroneamente il tessuto intestinale sano. Purtroppo, non si guarisce: esistono solo terapie che possono portare a una remissione dei sintomi, che nella maggior parte dei casi è solo temporanea.
Arthur Hatt, la cui storia è riportata sul website dell’Università di Cambridge, assume farmaci da quando gli è stata diagnosticata la malattia – più di uno perché non esiste un solo modo di combattere la Crohn. Le terapie non funzionano sempre, né su tutti i pazienti, e spesso i medici sono costretti a modificare il piano terapeutico per controllare meglio i sintomi.
Come tutti i farmaci, anche quelli per la malattia di Crohn hanno effetti collaterali: i trattamenti possono rendere la pelle ipersensibile alla luce del sole e sopprimere il sistema immunitario, che non è più in grado di reagire alle comuni infezioni, come influenza e raffreddore. Per bambini e adulti, questo si traduce in un netto peggioramento della qualità di vita e l’assenza dai luoghi di studio o di lavoro.
COME STUDIARE LA MALATTIA
Della malattia di Crohn si sa ancora troppo poco. Non sappiamo ad esempio perché ci si ammala: sebbene esista una certa familiarità (circa il 20% dei pazienti ha almeno un parente di primo grado con la stessa condizione), i ricercatori hanno identificato solo un numero limitato di varianti genetiche associate alla malattia, e anche in presenza di queste mutazioni il rischio complessivo rimane basso. Oltre alla componente genetica, quindi, fattori immunologici e ambientali potrebbero giocare un ruolo determinante.
Per studiare nel dettaglio la patogenesi ed evoluzione della malattia di Crohn, i ricercatori hanno bisogno di creare dei modelli che riproducano in laboratorio quello che avviene nei pazienti. Tutto ciò che sappiamo finora viene per la maggior parte da studi preclinici sui topi, che però hanno l’ovvio limite di non riprodurre esattamente la fisiologia umana.
I MINI-INTESTINI DERIVATI DAI PAZIENTI
Nello studio pubblicato su Gut, il team guidato da Matthias Zilbauer e Francesca Perrone - del Cambridge Stem Cell Institute - ha usato le cellule di intestini infiammati donate da 160 pazienti - principalmente bambini e adolescenti affetti da Crohn o colite ulcerosa, tra cui Arthur - per far crescere più di 300 organoidi intestinali in laboratorio.
Gli organoidi sono una riproduzione 3D dei veri organi, derivati in laboratori a partire dalle cellule staminali dei pazienti. Quelle dell’intestino hanno il compito di generare continuamente nuove cellule per il mantenimento e la riparazione dell’epitelio che riveste le pareti interne del tratto gastro-intestinale.
IL RUOLO DELL’EPIGENETICA
Mettendo a confronto gli organoidi derivati da cellule di pazienti con la malattia di Crohn e quelli di persone sane, i ricercatori hanno notato che i primi avevano una peculiare “firma epigenetica”. I cambiamenti epigenetici – che avvengono già nell’utero materno e sono influenzati da fattori ambientali, come l’esposizione alle infezioni o agli antibiotici – non modificano la sequenza del DNA, ma possono accendere o spegnere l’attività dei geni, attraverso l’aggiunta di gruppi chimici o piccole proteine in posizioni specifiche. Oggi persino alcune strategie di editing mirano all’epigenoma, per scongiurare i rischi legati al taglio della sequenza di DNA.
Negli organoidi dei pazienti con la malattia di Crohn, ad esempio, i ricercatori hanno osservato un aumento dell’attività di una proteina nota come complesso maggiore di istocompatibilità (MHC-I). Grazie a questa molecola, le cellule immunitarie riconoscono le sostanze estranee (antigeni) che entrano in contatto con l’organismo. Ma nell’intestino dei pazienti, la sua attività è maggiore rispetto alle persone sane, e questo provoca un aumento della risposta infiammatoria, che è la causa principale dei sintomi.
Le modifiche epigenetiche sono piuttosto stabili, quindi può succedere che, anche dopo il trattamento, un paziente sembri guarito ma l’infiammazione ritorni dopo qualche mese. È per questo che i farmaci alleviano i sintomi, ma non risolvono il problema alla radice.
ORGANOIDI E TERAPIE PERSONALIZZATE
Gli organoidi non solo possono aiutare a capire meglio questi aspetti della malattia di Crohn, ma rappresentano anche una piattaforma innovativa per testare i farmaci: un “avatar” del paziente che permetterà di sviluppare piani terapeutici personalizzati.
Arthur, nella sua breve vita con la malattia, ha già cambiato numerosi farmaci prima di trovare la combinazione più adatta a lui. La sua storia è simile a quella di tanti altri pazienti, che solo dopo un lungo percorso fatto di prove ed errori riescono a trovare una terapia che funzioni. Gli organoidi potrebbero velocizzare e ottimizzare questo processo, perché permetterebbero di testare subito i farmaci e capire in anticipo cosa funziona.
Arthur oggi sta meglio: grazie a una nuova combinazione di farmaci che riesce a tenere sotto controllo i sintomi è tornato a scuola e a vivere le piccole gioie della sua età, come prendere parte alla recita scolastica. Sa che la malattia non scomparirà, ma insieme agli altri ragazzi che hanno partecipato allo studio clinico è consapevole che il suo contributo aiuterà i ricercatori a migliorare la qualità della vita dei pazienti con la sua condizione e ad accelerare la scoperta di nuove opzioni terapeutiche.