Probiotici

Un gruppo di ricerca della Columbia University di New York ha elaborato una strategia su modelli animali per superare le barriere del microambiente nei tumori solidi 

I cultori della fantascienza ricorderanno come nel film “La guerra dei mondi”, tratta dall’omonimo romanzo di H.G. Weels (1897), siano bastati gli organismi di microscopiche dimensioni, che da sempre abitano il nostro pianeta, per penetrare le difese degli enormi tripodi alieni intenti a distruggere la Terra. Si potrebbe pensare che i ricercatori statunitensi, guidati da Rosa Vincent, si siano ispirati a questo filone fantascientifico quando hanno cominciato gli esperimenti su una nuova piattaforma a base di CAR-T che li ha portati a un’interessatissima pubblicazione comparsa il mese scorso sulla rivista Science. Oggetto dei loro studi, infatti, è l’ingegnerizzazione di ceppi batterici allo scopo di infiltrare il microambiente tumorale e guidare le CAR-T verso i bersagli per cui sono state designate.

Anche al di fuori dei laboratori di ricerca e dei centri clinici, è ormai noto che i maggiori successi delle CAR-T sono stati colti contro patologie onco-ematologiche, fra cui i linfomi e le leucemie che si sviluppano a partire dai linfociti B o il mieloma multiplo. Al contrario, la stoccata vincente contro i tumori solidi sembra non esser ancora arrivata. Non mancano però le ricerche in corso contro alcune forme tumorali aggressive ma, più in generale, l’ampio e diversificato corredo di antigeni esposti dalle cellule dei tumori solidi, in momenti diversi dell’evoluzione neoplastica, complica le opportunità di identificare un preciso bersaglio da colpire per sortire effetti terapeutici duraturi. I tumori solidi, infatti, esprimono antigeni eterogenei, per nulla specifici e sono scarsamente infiltrati dai linfociti T. Quest’ultima caratteristica si deve anche al microambiente tumorale che presenta condizioni ostili all’avanzata dei linfociti T i quali, in questo modo, faticano a esercitare la loro azione.

Si stanno sperimentando varie soluzioni per vincere la resistenza ai trattamenti dei tumori solidi e una delle più affascinanti è proprio quella di due bioingegnere della Columbia University che hanno pensato di affidarsi a dei batteri ingegnerizzati. L’idea di Rosa Vincent e di Candice Gurbatri - che si rifà alla capacità di alcune specie batteriche di colonizzare in maniera selettiva il tessuto tumorale - non è del tutto nuova. Infatti, a metà degli anni Settanta del secolo scorso erano stati condotti degli esperimenti su ceppi attenuati di Mycobacterium bovis (lo stesso organismo da cui è derivato il vaccino contro la tubercolosi) per sviluppare una forma di immunoterapia da usare negli individui affetti da cancro alla vescica. Le ricercatrici della Columbia sono andate oltre questo approccio: pensando di poter ingegnerizzare i batteri allo scopo di trasformarli in piattaforme di erogazione della terapia. Di probiotici abbiamo sentito parlare spesso, specialmente in riferimento ai bifidobatteri o ai lattobacilli che colonizzano il nostro intestino e lo proteggono dai patogeni o dall’azione di alcuni antibiotici il cui utilizzo può disturbare la funzionalità intestinale. Vincent e Gurbatri hanno quindi combinato la terapia probiotica con le terapie a base di cellule CAR-T allo scopo di generare delle versioni di queste ultime che, guidate dai batteri probiotici capaci di colonizzare il tumore, possono individuare dei bersagli specifici sulle cellule tumorali e, in tal modo, attaccarle.

La loro terapia sperimentale si chiama ProCAR ed è nata da un fine utilizzo di tecniche di ingegneria genetica con cui esse hanno modificato un ceppo non patogeno di Escherichia Coli E. coli Nissle - rendendolo capace di arrivare al cuore del tumore solido e “marcare la strada” alle cellule CAR-T, segnalando il tessuto tumorale da colpire. In pratica i batteri vanno in avanscoperta, infiltrandosi a fondo nel microambiente tumorale e dando alle CAR-T le giuste indicazioni per colpire. Così queste diventano capaci di assaltare le cellule tumorali con estrema precisione. La scelta di questo particolare ceppo batterico è stata motivata dai suoi precedenti utilizzi in trial clinici di immunoterapia e dalle sue capacità di carico. Infatti, una seconda terapia sperimentale - ProCombo - consiste nella modifica dei batteri probiotici che, oltre a mettere le bandierine per segnalare alle CAR-T quali cellule colpire risparmiando così le cellule sane, rilasciano delle citochine in grado di migliorare l’azione delle CAR-T stesse, aumentando ulteriormente la risposta terapeutica.

La ricerca di Vincent e Gurbatri ha subito riscosso grande entusiasmo all’interno della comunità scientifica tanto che in un articolo di accompagnamento allo studio pubblicato su Science, Eric Bressler e Wilson Wong, due ingegneri biomedici dell’Università di Boston, commentano il risultato delle colleghe affermando che la loro piattaforma prelude a una strategia “agnostica” per prendere a bersaglio gli antigeni, soffermandosi dunque sull’enorme potenziale della terapia. Infatti, dopo aver testato il loro approccio in laboratorio le ricercatrici della Columbia lo hanno replicato in modelli animali di cancro al seno, all’ovaio, al colon-retto e in topi affetti da leucemia: ProCAR ha rallentato la crescita del tumore nei modelli animali di cancro al seno triplo negativo e nei modelli di leucemia e di cancro del colon-retto, nei quali è anche stato registrato un aumento della sopravvivenza degli esemplari trattati. In aggiunta a ciò ProCombo si è rivelato ancora più efficace nel sopprimere la crescita tumorale, probabilmente in forza della capacità dei batteri di suscitare una risposta immunitaria innata.

Trattandosi di una ricerca preclinica rimangono diverse questioni aperte in merito alla sicurezza dell’approccio sugli esseri umani. Il team di ricerca statunitense sta proseguendo l’attività di ricerca per fare chiarezza sulle eventuali reazioni avverse e sulle possibilità a disposizione per ridurre i rischi per riuscire ad arrivare agli studi clinici sull’uomo. Nel frattempo, come fanno notare i colleghi di Boston il loro studio fornisce una solida e importante prova dell’efficacia di un potenziale nuovo approccio al trattamento di tumori solidi, di diversi tipi.

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