La strategia che agisce direttamente all’interno del corpo del paziente promette di ottimizzare il processo di sviluppo e somministrazione della terapia, rendendolo più sostenibile
Contrariamente all'editing genomico ex vivo - che richiede l'estrazione delle cellule del malato, la loro manipolazione in laboratorio e la successiva reinfusione - l'editing in vivo utilizza vettori virali (e non) per modificare specifiche sequenze di DNA direttamente all’interno del corpo del paziente. Questa strategia, che ha già varcato le porte degli studi clinici da diversi anni, promette di semplificare e accelerare il processo di sviluppo e somministrazione della terapia, offrendo potenzialmente una soluzione più sostenibile e, quindi, più accessibile. Una tematica che è stata affrontata lo scorso giugno nell’ambito della COST (European Cooperation in Science and Technology) Action GeneHumdi (Genome Editing for the treatment of human Disease Network).
"Quando ancora c'era solo la terapia genica tradizionale, dal proof of concept al clinical trial passavano tranquillamente 10 anni. Oggi le agenzie regolatorie come l'Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) e la Food and Drug Administration (FDA) statunitense, sono ormai ben rodate su questi temi, facilitando l'approvazione di nuovi studi clinici”, ha spiegato Alessia Cavazza, professoressa associata in terapia genica all’University College of London. “Questo background regolatorio consolidato ha permesso di velocizzare il processo di traslazione dal laboratorio alla clinica”. Il passaggio dall'editing genomico ex vivo, dove le cellule sono estratte, modificate fuori dal corpo e poi reinfuse nel paziente (come avviene nel caso di malattie ematologiche come la beta-talassemia o l’anemia falciforme), a quello in vivo, che mira a modificare direttamente le cellule all'interno del corpo del paziente, cerca di accorciare ulteriormente i tempi, riducendo inoltre i costi associati.
La strategia in vivo è oramai utilizzata in diversi trial clinici, e potrebbe permettere persino interventi nel feto. “Stiamo svolgendo studi preclinici con base editing utilizzando modelli murini per la malattia di Krabbe, una condizione di origine genetica, neurodegenerativa e infiammatoria che potrebbe beneficiare enormemente da un intervento in utero, ovvero durante la gestazione”, ha affermato la docente dell’UCL.
“Non è necessario manipolare le cellule in un ambiente GMP (Good Manufacturing Practice), e questo fa la differenza”, ha ricordato Paula Río, biologa a capo dell'Unità di Insufficienza del Midollo Osseo presso il centro di ricerca CIEMAT di Madrid e presidente della Società Spagnola di Terapia Genica e Cellulare, nel corso del suo intervento. “I sistemi di delivery possono essere inviati ovunque nel mondo, consentendo il trattamento dei pazienti nei loro luoghi di residenza. Questo amplia la possibilità di trattare un numero maggiore di pazienti a livello globale”. Gli approcci in vivo sono particolarmente utili quando non è possibile crescere e manipolare le cellule ex vivo. “Ad esempio, nel caso del fegato o dell'occhio, le cellule non possono essere mantenute in coltura per poi essere reintrodotte nel paziente”, ha affermato Paula Río. “In questi casi, l'approccio in vivo è l’unica soluzione, perché permette di modificare geneticamente le cellule direttamente all'interno del corpo.”
Río, che lavora nel campo della terapia genica per l'anemia di Fanconi da più di 20 anni, ha spiegato che nel contesto di malattie come l'anemia di Fanconi, dove le cellule staminali ematopoietiche possono essere scarse, gli approcci in vivo permettono di correggere le cellule senza doverle estrarre dal corpo: “questo evita il rischio di danni alle cellule durante il processo di manipolazione”. La correzione in vivo di un numero molto basso di cellule può essere sufficiente per ottenere un beneficio terapeutico significativo, specialmente in condizioni in cui le cellule geneticamente modificate hanno un vantaggio proliferativo: “questo amplia l'applicazione del trattamento a un numero maggiore di pazienti, riducendo al contempo i costi e la complessità”.
“Tuttavia, per alcuni casi” - ha sottolineato a la ricercatrice - “trovare un approccio efficiente per colpire le cellule staminali ematopoietiche in vivo è molto difficile. Inoltre, c’è la necessità di trovare una strategia per arrivare efficientemente a queste cellule senza colpire nessun altro tessuto, in particolare il fegato”. A seconda del tessuto target che si vuole correggere o modificare, bisogna cercare il miglior sistema di delivery: “penso che questo sia davvero il Santo Graal in questo campo”, ha affermato Río. Ad oggi i vettori virali più utilizzati nell’ambito degli approcci in vivo di editing genomico sono i virus adeno-associati (AAV). Paula Río ha ricordato che uno dei vantaggi degli AAV è che a seconda del sierotipo hanno specificità per tessuti diversi e quindi sono una soluzione valida per diverse patologia, d’altro canto però i pazienti possono avere anticorpi preesistenti (gli AAV sono piccoli virus non patogenici diffusi in tutte le specie animali, compreso l’uomo) e sviluppare una reazione immunitaria. Inoltre, Río ha sottolineato che la loro produzione è ancora impegnativa e questo aumenta il prezzo della terapia, il che è il grande muro da abbattere nel campo delle terapie avanzate.
“Attualmente abbiamo a disposizione anche sistemi non virali il cui impiego si sta diffondendo molto, in particolare grazie all'uso delle nanoparticelle lipidiche che sono state implementate anche per il vaccino COVID”, ha spiegato Paula Río. Negli ultimi anni, infatti, le strategie di delivery non virali hanno mostrato un grande potenziale: i sistemi sono più facili da produrre e quindi meno costosi. Inoltre, come ha citatato Río, “le nanoparticelle lipidiche che trasportano il sistema CRISPR possono essere progettate per entrare negli epatociti attraverso il recettore LDL, in maniera tale da rilasciare il macchinario di gene editing direttamente all'interno della cellula”. Questo approccio innovativo si è dimostrato efficace in studi preclinici nei modelli murini per il targeting di diverse cellule, oltre a quelle del fegato anche quelle della milza e le staminali ematopoietiche del midollo osseo.