Giuseppe Novelli

L’ufficializzazione della conclusione del Progetto Genoma Umano porta la data di aprile 2003. Il prof. Giuseppe Novelli (Roma) ci illustra l’impatto di questa titanica impresa 

Qualche anno fa il giornalista Simon Winchester pubblicò l’affascinante resoconto della nascita dell’Oxford English Dictionary, il più celebre dizionario della lingua inglese composto da oltre mezzo miliardo di parole. La narrazione ruota intorno a due figure, James Murray, il coordinatore del progetto, e W.C. Minor, un medico, reduce dalla Guerra di Secessione, affetto da una grave paranoia. Fu un’impresa di portata straordinaria, poggiata sulle spalle di due uomini del tutto diversi ma ugualmente preziosi. La stessa dinamica che si ritrova dietro un altro leggendario progetto, legato per sempre a figure come quelle di Robert Sinsheimer, James Watson, Craig Venter e Francis Collins, grazie ai quali, nell’aprile di vent’anni fa, si è ufficialmente giunti alla conclusione del Progetto Genoma Umano.

SULLE TRACCE DEI GENI

Per comprendere davvero cosa abbia significato per i genetisti di tutto il mondo il sequenziamento dell’intero genoma umano occorre tornare alla scoperta della struttura DNA; non per nulla il primo nome scelto per il coordinamento dell’Office for Human Genome Research - dove fu sviluppato il progetto per conto dei National Institutes of Health - fu quello di James Watson, che neppure quarant’anni prima, aveva pubblicato il primo modello della famosa doppia elica. Negli anni Ottanta del secolo scorso molti scienziati e ricercatori dedicavano la loro carriera alla scoperta di geni considerati importanti per diverse malattie. Tra di essi c’era anche Giuseppe Novelli, oggi Professore Ordinario di Genetica Medica dell’Università degli Studi “Tor Vergata” e Direttore della U.O.C. di Genetica Medica del Policlinico Tor Vergata di Roma. 

A quel tempo il lavoro necessario all’identificazione e all’isolamento dei geni di interesse per una malattia partiva da una accurata raccolta di materiale dalle famiglie dei malati”, ricorda Novelli. “Serviva un grande numero di individui e di campioni biologici per mappare un gene su un cromosoma”. Il concetto di genoma non era stato ancora definito dal momento che i ricercatori iniziavano a muovere i primi passi nell’analisi del DNA con metodi che richiedevano intere settimane per ottenere informazioni anche su un singolo gene - cosa che, con le moderne tecnologie si realizza in poche ore. “Eravamo interessati a capire quali difetti stavano alla base di varie malattie genetiche, come la sindrome dell’X fragile, o certe emoglobinopatie”, prosegue Novelli. “Avevamo appurato la presenza di interruzioni nel DNA e stavamo cercando di mettere a punto delle tecniche per vedere dove esse fossero collocate”.

Figure come quelle di Jean-Louis Mandel, Francis Collins, Bob Williamson, Xavier Estivill, Tom Caskey, Alec Jeffreys, Arnold Munnich, Claudine Junien e dello stesso Novelli finirono col costituire il gruppo dei “ragazzi del DNA”, un manipolo di audaci, desiderosi di sperimentare e elaborare nuove tecniche per andare a caccia di geni. “Per fare questo utilizzavamo i marcatori in modo indiretto, cercando di avvicinarci il più possibile al gene di interesse”, precisa il professore. “Cercando specifici marcatori che si trasmettono insieme al gene mutato, più nei malati rispetto ai sani, riuscivamo ad avvicinarci alla posizione del gene di interesse fino a trovarlo”. Sul finire degli anni Ottanta fu proprio Francis Collins a mettere a punto un nuovo metodo per analizzare i cromosomi, contribuendo così in maniera sostanziale all’identificazione del gene per la fibrosi cistica.

Questa malattia genetica - provocata da mutazioni a danno del gene che codifica per la proteina CFTR, incaricata del passaggio degli ioni come sodio e cloro dentro le cellule - provoca uno squilibro nella concentrazione dei sali, con la produzione di un muco denso che ostruisce tutti i dotti dell’organismo: perciò danneggia vari organi, dai polmoni, al pancreas, al fegato sino all’apparato riproduttivo. “Al tempo si erano creati dei grandi consorzi di ricerca”, ricorda Novelli. “Io e Paolo Gasparini facevamo parte di un gruppo coordinato da Bob Williamson, un noto genetista di origini australiane. Il nostro lavoro consisteva nell’isolare minuscoli pezzi di DNA per arrivare il più possibile vicini al gene che causa la fibrosi cistica. Avevamo scoperto dei marcatori molto prossimi al gene quando, nel 1989, Francis Collins, Lap-Chee Tsui e Jack Riordan, grazie alla tecnica messa a punto da Collins, pubblicarono la sequenza del gene. Solo a quel punto ci accorgemmo che uno dei nostri marcatori era in realtà un pezzo dell’introne del gene! Non ce ne eravamo accorti e siamo stati battuti sul tempo dai colleghi dall’altra parte dell’oceano”.

IL PROGETTO GENOMA UMANO

Un aspetto cruciale di questo difficoltoso processo era legato alla disponibilità di pazienti che, nel caso delle malattie rare, non si trovano facilmente. Oggi, un disturbo raro si individua a partire da uno specifico individuo malato e in seguito si estende l’analisi alla famiglia, ma ai tempi in cui non si sapeva quali geni fossero coinvolti nella genesi di una malattia era indispensabile individuare prima un corposo insieme di famiglie da cui trarre il materiale per le indagini genetiche. “Una delle malattie rare di cui mi sono occupato nel corso della mia carriera è stata la displasia mandibulo-acrale, della quale ho scoperto il gene e la mutazione”, afferma Novelli. “Avevo notato che in letteratura erano descritti una manciata di casi, tutti di origine italiana, e tramite i colleghi interessati mi ero messo in contatto con loro. In tal modo fu possibile apprendere quali marcatori genici essi condividessero e, a quel punto, trovare l’esatta posizione del gene collegato alla malattia”.

Fu proprio la ricerca di Novelli a consentire poi a Francis Collins di scoprire la mutazione della progeria di Hutchinson-Gilford, nel gene LMNA, che codifica per la lamina nucleare delle cellule.  “In seguito, a un meeting a Washington incontrai Francis il quale mi ringraziò perché nel mio articolo apparso su American Journal of Human Genetics scrissi che l’invecchiamento precoce nel paziente con displasia mandibulo-acrale poteva essere dovuto a mutazioni di LMNA”, ricorda ancora Novelli. “L’approccio era dunque quello di studiare le malattie partendo dal gene candidato. Un sistema che oggi è desueto perché le moderne tecnologie di analisi ci permettono di studiare contemporaneamente centinaia o migliaia di geni”.

Prima del Progetto Genoma Umano su un gene si poteva costruire una carriera, come ha fatto Nancy Wexler che ha legato la sua attività di ricerca alla malattia di Huntington. Come hanno fatto anche Francis Collins con la fibrosi cistica o lo stesso Novelli, che ha dedicato quarant’anni allo studio della distrofia miotonica. Così si sono formati dei team di lavoro multinazionali che si rivelarono essenziali per il progresso scientifico, consentendo un balzo evolutivo grazie a cui tentare sfide impensabili prima del tempo, fra cui l’idea di sequenziare l’intero genoma umano.

Il Progetto Genoma Umano fu, dunque, avviato nel 1990 presso i National Institutes of Health degli Stati Uniti sotto la direzione scientifica del premio Nobel James Watson. Tre anni più tardi toccò a Francis Collins raccogliere il testimone. Dopo molte difficoltà e discussioni, si giunse al fatidico 26 giugno 2000, giorno in cui l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton organizzò una conferenza stampa durante la quale lo stesso Collins insieme a Craig Venter - il bioimprenditore che aveva deciso di entrare in competizione con il progetto dei National Institutes of Health per chi avrebbe sequenziato più velocemente l’intero genoma umano - annunciò il completamento della prima bozza del genoma umano. Tre anni più tardi l’annuncio del completamento ufficiale (ma ancora parziale) segnò la rivoluzione nell’universo della genetica. In realtà il Progetto Genoma Umano non aveva prodotto la sequenza genomica completa (che è stata recentemente aggiornata) ma rappresentava, comunque, oltre il 90% del genoma umano. Era il più vicino possibile al completamento consentito dalle tecnologie per il sequenziamento del DNA all'epoca. 

“Negli anni precedenti a quel traguardo storico, i pionieri del DNA, andavano a caccia di geni, li clonavano e se li scambiavano per posta o ai convegni”, aggiunge Novelli. “Il clonaggio di un gene non era un lavoro semplice ma era l’unico modo per ‘condividerlo’ con altri ricercatori. Tutto questo aveva un suo fascino intrinseco ma serviva a incentivare il dibattito, favorendo lo scambio di preziose informazioni, e a stabilire nuove relazioni di collaborazione. Oggi, basta interrogare il computer per trovare la regione del DNA di interesse e vedere cosa contenga. La bioinformatica ha assunto un enorme rilievo generando valanghe di dati. Ma occorre essere cauti e imparare a interpretare correttamente quei dati”.

CACCIATORI DI GENI E BIOINFORMATICI

Henri Poincaré asseriva che “la scienza è fatta di dati non più di quanto una casa sia fatta di sassi. Ma un ammasso di sassi non costituisce di per sé una casa, come pure un ammasso di dati non basta a fare scienza”. Pertanto, l’interpretazione dei dati sul genoma offerti dalle nuove tecnologie non può prescindere dall’esperienza clinica. “Bisogna osservare le cellule al microscopio e non su Instagram”, spiega Novelli alle nuove generazioni di biologi e genetisti. “Il genetista deve avere ‘fiuto’ clinico, deve incontrare il paziente, conoscere la sua storia clinica, la sua origine etnica e la sua famiglia, non può limitarsi alla lettura del dato informatico”.

Il Progetto Genoma Umano ha funzionato grazie alla ramificata rete di “cacciatori di geni” che  si incontravano di persona ai convegni, si scambiavano frammenti di geni e pezzi di DNA in provetta, disegnavano le mappe genomiche a mano, proprio come i primi cartografi che tratteggiarono il profilo dei nuovi continenti. Erano essi stessi dei pionieri, grazie a cui fu possibile in seguito avviare un programma di esplorazione ancora più vasto, destinato a mappare non un singolo gene ma tutti i geni che arricchiscono il genoma umano. Oggi, tocca a figure come quelle di Jennifer Doudna - che insieme a Emmanuelle Charpentier ha contribuito alla scoperta di CRISPR, grazie a cui è possibile operare modifiche specifiche alla sequenza del DNA - e a Sam Sterneberg proiettare nel futuro la conoscenza accumulata da chi il DNA lo ha esplorato per primo.

“Siamo nell’epoca delle scienze cosiddette omiche dove la genomica, la metabolomica e la proteomica risultano perfettamente integrate”, conclude Novelli. “Senza mai dimenticare l’esperienza clinica perché è dalla singola parte che si comincia per comprendere il tutto”.

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