Uno studio americano suggerisce che i tumori ad alto tasso di mutazioni a danno del DNA rispondano meglio alle terapie con farmaci immunoterapici
L’idea di usare il sistema immunitario per combattere i tumori ha sempre ricoperto un grande fascino e la scoperta dei cosiddetti farmaci inibitori dei checkpoint (ICI), alla quale è stato assegnato il premio Nobel per la Medicina 2018, ha rivoluzionato il trattamento di forme tumorali avanzate. Si tratta di una classe di anticopri, come il complesso PD-1/PD-L1, che agisce specificamente sulle molecole coinvolte nei tortuosi meccanismi che favoriscono il tumore nel suo tentativo di evasione dal controllo del sistema immunitario.
La storia dell’immuno-oncologia, intesa come la disciplina che ha l’obiettivo di contrastare il tumore attraverso la stimolazione del sistema immunitario, è strettamente connessa ai successi riscossi nella lotta al melanoma ma le classi tumorali sono molte di più. E il fatto che i risultati positivi siano stati per lo più limitati a una ristretta fetta di pazienti ha imposto la ricerca di parametri di studio, e osservazione, per capire quali siano i tumori che meglio rispondano alle terapie e quali pazienti ne possano trarre maggior beneficio.
Un valido tentativo di risposta a questi interrogativi giunge dai risultati di recente pubblicati sulla rivista Nature Genetics nel quale un gruppo di ricercatori americani suggerisce che i tumori nei quali si riscontri un più elevato tasso di mutazioni del DNA siano in grado di rispondere meglio al trattamento di immunoterapia. L’ipotesi è suggestiva specie se si pensa che il tasso di divisione cellulare in alcuni tipi di cancro è tale per cui certe cellule neoplastiche giungono ad avere addirittura un numero cromosomico alterato. È, quindi, possibile pensare che il tasso di mutazioni possa rappresentare un biomarcatore di funzionalità per terapie mirate? Se, in maniera del tutto estensiva, consideriamo un biomarcatore come un qualsiasi segnale biologico correlabile alla presenza di una neoplasia questa ipotesi assume un suo senso logico. Ma un eventuale suo utilizzo nella routine clinica risulta ancora piuttosto lontano.
L’ipotesi di un possibile collegamento tra il carico mutazionale di certi tumori e la risposta alla terapia è giunta proprio dagli studi sul melanoma, dove questa associazione è stata osservata in una limitata casistica di malati trattati con inibitori dell’antigene CTLA-4. I ricercatori del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York hanno perciò sequenziato il genoma di 1.662 pazienti affetti da svariate tipologie di cancro (melanomi, carcinomi renali a cellule chiare, cancri della vescica, carcinomi delle cellule squamose del distretto collo-testa) in stadio avanzato e che avessero ricevuto almeno un ciclo di cure con farmaci inibitori dei checkpoint (farmaci immunoterapici come iplimumab, nivolumab o pembrolizumab). Quindi hanno analizzato i dati e li hanno messi in relazione a quelli della sopravvivenza. Un lavoro enorme che ha richiesto mesi di analisi dei dati raccolti e con il quale si è voluto cercare di dimostrare una tesi semplice ma elegante: tanto più le cellule tumorali sono diverse da quelle sane, tanto più facilmente il sistema immunitario, deputato al riconoscimento di ciò che è estraneo all’organismo, le potrà individuare ed eliminare.
La teoria dell’immunoediting, fondata sui tre stadi di eliminazione, equilibrio ed evasione potrebbe arricchirsi di un particolare non trascurabile: se, da una parte il tumore cerca gli espedienti per impedire al sistema immunitario di aggredirlo, potrebbe invece essere una sua caratteristica intrinseca che vada ad aiutare gli scienziati a far si che le terapie lo distruggano. La teoria della Regina Rossa così cara agli evoluzionisti si dimostra sempre di grande attualità. I ricercatori guidati dal dott. Luc G.T. Morris, oncologo del Memorial Sloan Kettering Cancer Center, hanno trovato che un alto numero di mutazioni a danno del DNA correla con un aumento della sopravvivenza nei pazienti trattati con immunoterapia.
Per confermare questi risultati sono state eseguite ulteriori ed approfondite analisi statistiche e di bioinformatica ed è stato eseguito uno studio di correlazione con i tipi istologici di tumore prelevati. Inoltre, per scartare l’ipotesi che l’aumento di sopravvivenza fosse attribuibile semplicemente al carico mutazionale, indipendentemente dall’uso dei farmaci inibitori dei checkpoint, i ricercatori americani hanno eseguito un confronto con le sequenze del genoma di 5.371 soggetti affetti da neoplasie in stadio metastatico non trattati con i medesimi farmaci. In questo gruppo non è stata trovata alcuna correlazione tra il carico mutazionale e l’aumento della sopravvivenza. E, contrariamente a quanto osservato nel gruppo di studio, tale mancanza è stata confermata anche in relazione all’istologia dei tumori.
Prima di lasciarsi andare all’entusiasmo è comunque opportuno fare alcune considerazioni. Innanzitutto, non è (ancora) possibile stabilire un numero di mutazioni tale da poter predire se la terapia avrà maggiore effetto. Non c’è una soglia definita e, quand’anche vi fosse, potrebbe variare in maniera considerevole da un tipo di tumore all’altro, proprio in relazione alle diverse manifestazoni e caratteristiche di ogni neoplasia. Inoltre, l’ipotetico valore di cut-off potrebbe differire a seconda delle varie piattaforme di analisi e sequenziamento del genoma scelte, dove vengono usati algoritmi diversi per l’interpretazione dei dati.
I risultati del lavoro di Morris e dei suoi colleghi confermano quelli già trovati da altri gruppi di studio ma anche se, secondo i suoi autori, questo studio è il primo a rilevare una sopravvivenza prolungata in una così ampia gamma di tumori e in una popolazione di soggetti ai quali, in precedenza, sia stata somministrata una tale varietà di terapie, sarà necessario proseguire gli studi per validare le conclusioni. La filosofia degli autori è che l’elevato numero di antigeni espressi faciliti la risposta immunitaria ma la varietà di tumori e di precedenti terapie ai quali i pazienti sono stati sottoposti non rappresenta solo un punto di forza. L’ampiezza dei criteri di inclusione rende difficile pensare al numero di mutazioni come ad un biomarcatore con soglie definite e limiti di sensibilità e specificità universalmente accettati.
C’è, quindi, ancora molto lavoro da svolgere e azienda farmaceutiche e ricercatori dovranno prestare attenzione a questo parametro nei loro prossimi protocolli di studio, ma se la strada è quella corretta i risultati non tarderanno ad arrivare.