CRISPR per la PKU

Due recenti articoli scientifici hanno descritto approcci di base editing e di prime editing per il trattamento della rara malattia genetica causata da un malfunzionamento del gene PAH

Una malattia metabolica che, se non gestita adeguatamente, comporta danni neurologici che si traducono in disabilità intellettiva, deficit nello sviluppo, problemi psichiatrici e altri sintomi collegati agli effetti tossici sul cervello. La fenilchetonuria (PKU) è una malattia rara che provoca un accumulo dell’aminoacido fenilalanina (Phe) a causa delle mutazioni a carico del gene PAH, che codifica per l’enzima fenilalanina idrossilasi. Correggere l’errore sul DNA permetterebbe di avere un enzima funzionante e di abbassare i livelli di Phe nel sangue. Per fare questo è stato messo in campo CRISPR: due studi pubblicati recentemente su The American Journal of Human Genetics e su Human Genetics and Genomics Advances hanno descritto altrettanti approcci per provare a trovare una terapia efficace per la PKU.

QUANDO IL GENE PAH È MUTATO

All’ultimo meeting annuale della American Society of Human Genetics (ASHG) a Washington sono stati presentati i promettenti risultati di due studi che hanno come protagonisti la più comune mutazione della fenilchetonuria (c.1222C>T) e l’editing genomico. L’obiettivo è quello di aprire le porte – in un futuro si spera non molto lontano – a nuove opzioni di trattamento. Oggi la patologia viene gestita grazie a un regime dietetico rigoroso povero di proteine, con supplementazioni di miscele proteiche prive di fenilalanina e alimenti a fini medici speciali. Le terapie avanzate, e in particolare l’editing del genoma, potrebbero cambiare il modo di affrontare questa malattia genetica rara che colpisce 50mila persone in tutto il mondo.

Come spiegato nell’articolo pubblicato su The American Journal of Human Genetics, basterebbe correggere il 10% degli alleli del gene PAH per ottenere un sufficiente abbassamento dei livelli dell’aminoacido nel sangue. La versione classica di CRISPR non è stata scelta in questi studi perché più imprecisa e prevede il taglio della doppia elica, che è sempre una procedura rischiosa per il benessere del DNA.

RISCRIVERE IL CODICE GENETICO

Come prima cosa è stata identificata la mutazione più comune tra le persone con diagnosi di fenilchetonuria: analizzando i dati di 129 pazienti, i ricercatori hanno evidenziato che quelli con la mutazione c.1222C>T nel gene della fenilalanina idrossilasi erano quelli con un minor controllo sulla loro condizione.

I tentativi per correggere la mutazione sono stati fatti inizialmente sulle cellule epatiche di pazienti, lavoro che ha portato a rilevare l’efficacia di questo approccio, per poi passare ai modelli animali. I topi modificati geneticamente per avere il gene PAH mutato e trattati con l’approccio sperimentale di prime editing hanno manifestato una riduzione nei livelli di Phe. Usando vettori virali adeno-associati (AAV) per la somministrazione del sistema di prime-editing, i ricercatori hanno dimostrato un efficiente correzione e la normalizzazione dei livelli ematici di Phe nei modelli murini.

I sistemi editor di basi hanno la capacità di correggere direttamente e con precisione le varianti genetiche che causano la malattia, ma la loro efficacia dipende dal bersaglio e da quello che si trova attorno ad esso. La scelta di usare il prime editing fa sì che non siano necessari tagli sulla doppia elica - che possono creare errori - e che la correzione sia permanente o quantomeno a lungo termine. Inoltre, dato che con questa tecnica viene utilizzata una trascrittasi inversa per inserire la correzione, è molto più flessibile nel tipo di correzione da fare rispetto al base editing, che invece induce un cambiamento a livello chimico ed è limitato alla conversione di una specifica base azotata in un’altra.

L’EDITING CHE USA LA CHIMICA

Lo studio pubblicato su Human Genetics and Genomics Advances si è incentrato sulla stessa mutazione del gene PAH, ma stavolta ha previsto l’utilizzo del base editing. Anche in questo caso la doppia elica non viene tagliata, ma la correzione dell’errore sul DNA è fatta chimicamente e la variante patogena C/T viene corretta con un editor delle basi che introduce un A/G nella stessa posizione. Ci sono alcune problematiche da affrontare per quanto riguarda la posizione del bersaglio che non si trova nel segmento di editing, e che quindi richiede un’accurata scelta di varianti degli enzimi di taglio, e per la presenza di alcune adenine (A) molto vicine al bersaglio, che potrebbero essere potenzialmente modificate per errore.

Come per lo studio illustrato sopra, i ricercatori hanno testato l’approccio prima sulle cellule coltivate in vitro e poi su modelli animali. La differenza sostanziale è nella modalità di somministrazione: se nel primo caso si parla di vettori virali, in questo sono state utilizzate le nanoparticelle lipidiche, di cui si è sentito tanto parlare di recente in quanto utilizzate nei vaccini per contrastare la pandemia di COVID-19. I livelli di Phe si sono normalizzati in sole 48 ore e, in studi correlati, è stato evidenziato che le riduzioni si sono mantenute per un anno.

I risultati sono molto interessanti e il National Institute of Health (NIH) ha recentemente finanziato la ricerca per trovare un approccio di editing genomico per trattare la PKU con 26 milioni di dollari. Una terapia sicura e unica che normalizzi in modo permanente i livelli di Phe nel sangue sarebbe una trasformazione radicale nella gestione clinica delle persone affette da PKU.

“Questi risultati rappresentano un significativo passo avanti nel trattamento della PKU”, sottolinea Rebecca C. Ahrens-Nicklas, professore di Pediatria presso il Children’s Hospital di Philadelphia e autore di entrambi gli studi. “Sebbene i nostri risultati con i modelli animali ci indichino la giusta direzione, sono necessari ulteriori studi per portare avanti questi progressi. Ora, per esempio, ci concentreremo sul perfezionamento dell’approccio di base editing e sul confronto della sua efficacia con altri metodi di modifica genetica”.

Leggi anche l’articolo su Osservatorio Malattie Rare.

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