Prof. Luigi Naldini (Milano): “Il cardine della ricerca è l’applicazione di una strategia di terapia genica per ottenere una somministrazione di citochine mirata e continuativa”
Da diversi anni si sente parlare sempre con maggior insistenza di immunoterapia, cioè dell’opportunità di sfruttare il sistema immunitario - o perlomeno alcune sue componenti - per suscitare una risposta alla proliferazione dei tumori. L’aspetto affascinante di questo settore della medicina consiste nell’identificare gli elementi chiave dell’organismo da potenziare in maniera tale da metterli nelle condizioni di contrastare lo sviluppo del cancro. È quello che hanno fatto anche i ricercatori dell’Istituto Telethon San Raffaele per la Terapia Genica (SR-Tiget) di Milano attraverso la messa a punto di una innovativa piattaforma di terapia genica per il rilascio di molecole immunostimolanti in un modello di glioblastoma multiforme.
Pubblicata lo scorso luglio sulla rivista scientifica Science Translational Medicine, la ricerca coordinata dal prof. Luigi Naldini (di cui avevamo già parlato qui) - Direttore dell’Istituto SR-Tiget - sottolinea ancora una volta l’importanza del ruolo delle citochine, molecole prodotte dai globuli bianchi a cui, tra i tanti compiti, spetta quello più delicato di sostenere la risposta immunitaria nel trattamento di certi tumori.
FARMACI AD AZIONE MIRATA
“Sappiamo che le citochine possiedono una elevata potenzialità terapeutica, potendo attivare il sistema immunitario”, precisa Naldini alla redazione dell’Osservatorio Terapie Avanzate. “Purtroppo, se somministrati per via sistemica questi farmaci non sempre riescono ad esercitare il giusto effetto dal momento che la loro concentrazione sale immediatamente raggiungendo picchi molto alti per poi scendere fino ad esaurirsi completamente. Tali fluttuazioni possono causare tossicità sistemica e desensibilizzare il bersaglio che si desidera colpire”. Una lezione che aveva ben compreso anche Steven Rosenberg, considerato uno dei padri dell’immunoterapia, quando all’inizio degli anni Ottanta entrò nel vivo del suo lavoro con l’Interleuchina 2 (IL-2, una proteina della famiglia delle citochine, n.d.r.) per il trattamento di alcuni pazienti affetti da tumore. L’eterogeneità dei risultati che aveva ottenuti nei suoi studi (in alcuni casi la guarigione, in altri il manifestarsi di una forte tossicità a livello di tutto l’organismo) lasciò intendere che fosse necessario sviluppare un metodo con cui garantire il rilascio specifico di tali preziose molecole, al fine di assicurare i vantaggi della loro azione. In questo può giocare un ruolo essenziale la terapia genica.
“L’idea di partenza della nostra ricerca è stata quella di usare la terapia genica per ottenere una somministrazione mirata e continuativa di citochine come l’Interleuchina 12 (IL-12) e l’interferone alfa in un modello di glioblastoma multiforme”, continua Naldini. “Queste molecole rappresentano dei solidi alleati nella lotta contro i tumori e le infezioni virali ma era necessario trovare la maniera di fornirle all’organismo senza fluttuazioni di concentrazione, eliminando così il rischio di tossicità e portando la loro azione direttamente sul tessuto colpito dal tumore con il vantaggio di risparmiare il resto dell’organismo”. In tal senso, il lavoro del prof. Naldini e dei suoi collaboratori si colloca all’intersezione tra il campo della terapia genica e quello della terapia cellulare dal momento che il primo approccio implica la possibilità di sfruttare i vettori lentivirali per portare alle cellule l’informazione necessaria ad ottenere l’espressione continuativa delle citochine, mentre il riferimento alla terapia cellulare si spiega con il fatto che le cellule ingegnerizzate sono le staminali ematopoietiche che danno origine ai monociti e ai macrofagi. Questi poi raggiungono in maniera specifica il tumore, configurandosi come cavalli di Troia in grado di portare in maniera mirata l’azione dell’interferone alfa e dell’IL-12 all’interno della massa tumorale.
GLIOBLASTOMA, UN TUMORE DIFFICILE DA CURARE
Il banco di prova di questa ricerca è stato il glioblastoma, considerato uno dei tumori più aggressivi del sistema nervoso centrale, nonché il più frequente, con un tasso di incidenza stimato intorno a 3-4 casi su 100 mila abitanti per anno. Attualmente non sono disponibili farmaci efficaci per la cura di questo tumore che si affronta, laddove possibile, con l’intervento chirurgico seguito da radioterapia e chemioterapia. Purtroppo, le possibilità di sopravvivenza dei malati rimangono molto basse e ciò impone la messa a punto di nuovi protocolli di sperimentazione (come l’esempio di un’altra promettente ricerca “mady in Italy” illustrata qui) che possano tradursi in una cura efficace. “Il microambiente tumorale del glioblastoma multiforme è ostile alla immunoterapia con cellule CAR-T e con farmaci inibitori dei checkpoint anche a causa della presenza di macrofagi immunosoppressivi che ostacolano l’azione dei farmaci”, spiega Naldini. “Infatti, proprio i macrofagi, che sono le cellule del sistema immunitario deputate a contrastare le infezioni, vengono richiamate dal tumore e diventano pro-tumorali, finendo col promuovere la formazione di nuovi vasi sanguigni essenziali per la crescita tumorale e la soppressione della risposta adattativa delle cellule T”. In pratica, nel microambiente tumorale i macrofagi vengono “convertiti” da amici a nemici dell’organismo.
“I macrofagi tumorali (TAM) sono noti da decenni e svariati gruppi di studio in tutto il mondo si stanno adoperando per inibirne le funzioni”, aggiunge il professore milanese. “Noi, invece, facciamo in modo che in una frazione spiccatamente pro-tumorale dei TAM si attivi il vettore virale che porta il gene dell’interferone alfa, inibendo così la crescita dei vasi sanguigni tumorali e ripristinando la funzionalità del sistema immunitario”. Il passo avanti rispetto alle ricerche compiute da Rosenberg è notevole perché in questo modo si sfruttano le potenzialità antitumorali delle citochine, riducendo al contempo i rischi di tossicità per l’organismo. Il nodo della ricerca è dunque la costruzione del vettore virale adeguato da usare nelle cellule staminali del sangue, le quali producono tutte le linee cellulari inclusi i monociti che poi diventano TAM; tale vettore si esprime solo nei macrofagi e in particolare in quelli tumorali. E perché creare uno strumento di modifica così sofisticato e non infondere nei pazienti soltanto i monociti deputati a combattere le cellule tumorali? La risposta è che una semplice infusione di monociti non garantirebbe una continuità d’azione poiché queste cellule si esaurirebbero presto. “Al contrario, modificando le cellule staminali ematopoietiche si ottiene un persistente rilascio di monociti e finché il tumore li recluta per diventare macrofagi tumorali essi non smetteranno di rilasciare l’interferone da usare in maniera continuativa contro di esso”, aggiunge Naldini.
UN SUCCESSO CHE HA ALLE SPALLE ANNI DI DURO LAVORO
Come si può leggere nell’articolo pubblicato sulle pagine di Science Translational Medicine, questa strategia è stata testata in un modello animale di glioblastoma multiforme ma la piattaforma di terapia genica sviluppata nei laboratori del SR-Tiget di Milano è da lungo tempo oggetto di sperimentazione anche su altri modelli tumorali, fra cui il melanoma, il tumore del seno e il cancro colo-rettale. “Ai dati che abbiamo precedentemente ottenuto su altri tipi di tumore abbiamo anche aggiunto la descrizione del meccanismo di questa terapia rispetto al ricondizionamento immunitario ottenuto nel modello di glioblastoma”, chiarisce Naldini. “Inoltre, abbiamo dimostrato una serie di avanzamenti rispetto al modello di somministrazione introducendo degli interruttori che permettono di accendere o spegnere il rilascio delle citochine ‘on demand’ e potrebbero in futuro servire ad ampliare l’utilizzo della terapia qualora la prima prova clinica avesse successo”. Infatti, grazie alla collaborazione con Genenta, una start-up di cui l’Istituto San Raffaele è partner, sono già in corso i primi studi clinici sulla nuova piattaforma di terapia genica, pertanto, i risultati raggiunti dai ricercatori milanesi potrebbero rivelarsi preziosi nel prossimo futuro per un successivo e ulteriore miglioramento dell’efficienza. “È uno schema di lavoro in parallelo, che parte dal laboratorio per arrivare al letto del malato e poi tornare di nuovo al laboratorio”, sottolinea Naldini. “In modo tale da comprendere sempre più nel dettaglio come funziona la piattaforma nell’organismo e, se necessario, tornare in laboratorio e fare correzioni per rifinirla e migliorarla”.
Infine, ultimo ma non trascurabile pregio della strategia descritta è quello di agire in sinergia con altre terapie avanzate nella lotta a tumori solidi che devono essere aggrediti con più linee terapeutiche. “Siamo in possesso di nuovi dati che indicano come la nostra piattaforma possa agire in combinazione con altri trattamenti, come quelli a base di cellule CAR-T”, conclude Naldini. “Il nostro approccio riattiva il sistema immunitario e promuove l’esposizione di antigeni associati al tumore, aumentando così l’efficacia terapeutica delle cellule T. Noi sfruttiamo i macrofagi, che sono una componente diversa dai linfociti T impiegati per la costruzione delle CAR-T, o dai linfociti infiltranti il tumore (TIL) studiati da Rosenberg, ma l’orizzonte a lungo termine verso cui tutti guardiamo è quello di raccordare questi approcci per ottenere protocolli di cura individualizzati e potenzialmente risolutivi”.