Lo sviluppo di un farmaco richiede la sperimentazione in vitro e su modelli animali con grandi quantità di tempo e di denaro. La bioingegneria potrebbe offrire nuove soluzione.
Intestino, fegato, pelle e rene, tutti in miniatura e collegati tra loro come se fossero un mini-organismo, ma in formato tascabile. Quattro agglomerati cellulari tridimensionali collegati da canali microscopici che mimano il flusso sanguigno in vitro. Lo studio pubblicato nel 2015 sulla rivista Lab on a Chip aveva l’obiettivo di studiare la farmacocinetica dei farmaci seguendone l’assorbimento nell’intestino, il metabolismo a livello del fegato e l’escrezione dai reni, cosa che gli studi in vitro classici non possono fare. Il dispositivo è formato da agglomerati di cellule cresciute in piccole celle in grado di mimare la struttura e la fisiologia di diversi tessuti, con tanto di circolazione di microfluidi. Un’opportunità unica di modellare e studiare lo sviluppo e l’interazione tra gli organi, di testare la tossicità di sostanze chimiche e di valutare nuovi farmaci in laboratorio, ma su modelli idealmente molto vicini all’organismo umano.
Il passaggio da colture 2D a colture 3D è stato determinante per l’evoluzione di questa tecnologia. I sistemi tridimensionali danno più flessibilità alle cellule, che possono adattarsi ai cambiamenti di forma e dar vita a strutture complesse, cosa non realizzabile in due dimensioni. L’utilizzo di un sistema di microfluidi consente il trasporto delle sostanze nutritive e di altre molecole utili. I cosiddetti organ-on-a-chip sono stati sviluppati per unire l’aspetto biologico delle colture cellulari a quello ingegneristico della creazione di un sistema artificiale che permetta lo studio delle risposte fisiologiche e fisiopatologiche degli organi nel modo più realistico possibile. Sono stati sviluppati per la prima volta una ventina di anni fa e, da allora, la tecnologia è migliorata, permettendo ai ricercatori di creare strutture più complesse, contenenti tipi cellulari diversi che mimano in modo più preciso la struttura, la funzione e le attività degli organi che rappresentano. Ad oggi, sono stati creati molti mini-organi artificiali: polmone, cuore, fegato, neuroni, rene, vasi sanguigni, midollo osseo, cervello e perfino tumore.
Questi sistemi possono essere utilizzati come modelli per lo studio di patologie, l’analisi accurata degli effetti dei farmaci già in commercio, lo sviluppo di nuovi farmaci e la comprensione delle interazioni tra i vari tessuti in condizioni diverse, ad esempio in caso di infiammazione o infezione. Le cellule staminali vengono fatte crescere su uno scaffold, cioè strutture sintetiche di supporto che possono modulare la crescita delle cellule in tre dimensioni. Il passaggio da organ-on-a-chip a human-on-a-chip riflette una necessità specifica: il corpo umano è una macchina complessa in cui tutti gli organi comunicano tra loro per il funzionamento dell’organismo. I mini-organi su chip, per quanto utili a livello di studi in laboratorio, non saranno mai in grado di offrire uno strumento per la comprensione dei meccanismi fisiologici dell’intero organismo. La vera svolta è stata proprio quella di sviluppare dei sistemi che permettano di ricreare, seppur in versione miniaturizzata, un sistema di “organi” collegati tra loro. I ricercatori della Cornwell University sono stati tra i primi a costruire, nel 2009, un sistema su un unico chip con circolazione chiusa, costituito da cellule di fegato, di midollo osseo e di tumore del colon. È stato utilizzato per studiare il metabolismo del farmaco oncologico 5-fluorouracile, che assunto per via orale ha un effetto ridotto. Grazie a questo studio, è stato possibile approfondire le ricerche su una molecola più stabile che si attiva solo dopo essere stata metabolizzata dal fegato.
La sfida per il futuro è sviluppare un sistema complesso di human-on-a-chip in cui siano interconnesse diverse celle per rappresentare tutti gli organi e le interazioni del corpo umano. Ci sono alcune problematiche da risolvere, ma le tecniche di costruzione di organ-on-a-chip e il collegamento tra loro sta migliorando, anche se il divario tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che si può fare è ancora grande. Le principali applicazioni sono relative alla tossicità di composti chimici industriali e non, all’efficacia dei farmaci, ma anche alla ricerca di modelli per lo studio di malattie multiorgano. Riprodurre la funzione di organi umani in scala ridotta potrebbe essere la svolta per superare la sperimentazione in vitro 2D, facile da gestire ma limitata, e i test tossicologici sugli animali, che sono costosi, richiedono tempo, sono eticamente controversi e, in ogni caso, presentano delle discrepanze con l’essere umano. Inoltre, questa tecnologia verrà utilizzata per studiare gli effetti dell’ambiente estremo dello spazio sull’uomo. La collaborazione in corso tra il National Center for Advancing Translational Science (NCATS, che fa parte del National Institutes of Health, NIH), il Center for the Advancement of Science in Space (CASIS), il National Institute of Biomedical Imaging and Bioengineering (NIBIB) e l’International Space Station U.S. National Laboratory (ISS National Lab), permetterà di comprendere gli effetti dell’esperienza nello spazio sulla salute umana grazie agli studi sui chip in microgravità. La prima fase del progetto Tissue Chips in Space comprende 5 diverse indagini – avviate a partire da novembre 2018 - per lo studio della barriera emato-encefalica, di malattie muscoloscheletriche, della funzione renale e dei polmoni. Sono previsti anche progetti per il 2020 sulla salute cardiovascolare, sul deperimento muscolare e sui processi infiammatori dell’intestino.
Ottenere una sorta di surrogato umano in vitro permetterebbe un cambio di paradigma nella sperimentazione di farmaci, allontanandoci dalle problematiche legate alle tecniche classiche e avvicinandoci alla medicina di precisione personalizzata, grazie alla creazione di human-on-a-chip partendo dalle cellule del singolo individuo. E, non meno importante, gli sviluppi di questa tecnologia potrebbero essere utili anche per monitorare la salute degli astronauti e per testare possibili contromisure.