L’utilizzo di cellule Natural Killer derivate da progenitori presenti nel sacco vitellino sembra produrre risposte antitumorali più robuste. I risultati di uno studio preclinico statunitense.
Una delle più brillanti intuizioni in campo medico nella lotta ai tumori è quella che ha portato alla nascita dell’immunoterapia, un settore nel quale si punta a sfruttare le potenzialità del sistema immunitario per contrastare il cancro. Il progresso in questo ambito terapeutico - e di studio - si è fatto più solido con l’aumento della conoscenza del sistema immunitario e di tutti i tipi cellulari che lo compongono, dividendo i loro compiti tra l’immunità acquista e quella innata. Questo ha permesso di puntare i riflettori sulle cellule Natural Killer (NK), al centro anche di un interessante studio americano.
Gli oncologi e gli ematologi della Washington University di St. Louis, in collaborazione con gli esperti di biologia dello sviluppo e medicina rigenerativa, hanno pubblicato lo scorso marzo sulla rivista Developmental Cell una ricerca da cui emergono i maggiori benefici derivanti da un utilizzo di cellule NK “precoci” in protocolli di immunoterapia. Lungi dal voler conferire al lavoro un tono troppo semplicistico bisogna comunque precisare che al termine “precoce” si vuol affibbiare esattamente una connotazione temporale poiché, come si legge anche nell’articolo, in molte terapie sperimentali si è fatto - e ancora si fa - ricorso a versioni adulte delle cellule NK che provengono dal midollo osseo. Di fatti, le cellule NK derivano dallo stesso progenitore linfoide comune ai linfociti T e B e sono rappresentabili come grosse cellule pieni di granuli che svolgono una parte determinante nel riconoscimento e nella distruzione delle cellule tumorali e di quelle infettate dai virus favorendo l’avvio di processi di apoptosi, ovvero di morte cellulare programmata.
Nella sequenza di eventi che portano allo sviluppo dell’organismo umano, prima della formazione del midollo osseo è il sacco vitellino che permette il ricircolo del sangue - e quindi dei nutrienti - all’embrione. In particolare, nel topo - uno dei modelli animali più utilizzati in biomedicina - esso è il sito di formazione degli elementi che compongo il sangue. Il sacco vitellino mantiene questo ruolo sino alla formazione del midollo osseo e i ricercatori americani coordinati dal prof. Christopher M. Sturgeon, del Centro di Medicina Rigenerativa presso la Washington University di St .Louis, hanno pensato di sfruttare le cellule di questo sangue “giovane” a scopi terapeutici. Ciò che rende ancora più particolare il loro lavoro è che per produrre tali cellule essi non hanno avuto bisogno di campioni di sangue dell’embrione ma sono stati in grado di svilupparle a partire dalle cellule staminali pluripotenti umane dalle quali si evolvono i vari tipi di cellule. Un tale importante passaggio elimina la necessità di ricorrere a un donatore esterno o di manipolare le cellule del paziente stesso e potrebbe garantire, in tempi ristretti, una elevata disponibilità cellulare per molti protocolli di immunoterapia.
Il gruppo di lavoro di Sturgeon ha potuto dimostrare la maggior efficacia delle cellule staminali NK “giovani”, ottenute da cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC) umane osservando direttamente la principale caratteristica delle cellule NK in un modello murino. Infatti, una volta riconosciuta la cellula da eliminare, le cellule NK rilasciano i granuli citotossici che innescano la distruzione delle cellule e si rendono protagoniste di un aumento della produzione di interferone-gamma che favorisce l’attività dei macrofagi, cellule del sistema immunitario che sono responsabili di fagocitare gli agenti patogeni o le cellule tumorali. Il rilascio degli specifici granuli citotossici è un processo che prende il nome di “degranulazione” ed è stato osservato essere molto più efficiente nelle cellule “giovani” piuttosto che nella loro controparte adulta. Perfino le cellule NK derivate dal sangue del cordone ombelicale non rispondono in modo così robusto come quelle derivate da iPSC.
Il pregio del lavoro di Sturgeon è stato quello di aver identificato un’altra possibile origine, al di fuori di quella embrionale, per queste preziosissime cellule e, di conseguenza, aver pensato a un sistema di produzione che consenta un loro più rapido impiego in nuovi protocolli di immunoterapia. Con risultati - ci si augura - sempre più promettenti. Disporre di queste cellule a maggior efficacia senza la necessità di cercare un donatore compatibile o senza il bisogno di manipolare quelle del paziente, magari già sottoposto a terapia, potrebbe avere un forte significato per l’evoluzione della branca dell’immunoterapia.
Infine, Sturgeon si auspica di poter presto rispondere alla domanda che riguarda il ruolo ed il destino di queste cellule dopo la nascita dell’individuo. “Su questo punto possiamo solo fare speculazioni - conclude il professore americano - ma è possibile che durante lo sviluppo embrionale precoce, quando c’è una divisione cellulare rapida, queste cellule costituiscano un meccanismo di sorveglianza per proteggere l’organismo dai tumori pediatrici o dalle infezioni”. Un aspetto che merita certamente ulteriori approfondimenti.