Da Rosalind Franklin a Rita Levi Montalcini, ripercorriamo alcune delle tappe più significative della storia della medicina “al femminile”

Rosalind, Martha, Henrietta, Rita, Jennifer e Emmanuelle
: donne appartenenti a contesti storici, culturali e geografici diversi, ma che condividono il fatto di aver contribuito – in modo consapevole o meno – allo sviluppo delle terapie avanzate. Sei nomi. Sei donne. Sei storie, molto diverse e spesso lontane geograficamente e temporalmente, condividono un filo conduttore che ci porta dalla scoperta del DNA alle nuove tecniche di editing genetico. Ma andiamo con ordine.

Rosalind Franklin e il DNA
La doppia elica è, quasi per tutti, sinonimo di J. D. Watson e F. Crick, i due scienziati che hanno vinto il Premio Nobel per la medicina nel 1962 – condiviso con M. Wilkins – “per le scoperte sulla struttura molecolare degli acidi nucleici e il significato del meccanismo di trasferimento dell'informazione negli organismi viventi”. In questa storia c’è un altro nome da ricordare: quello di Rosalind Franklin (1920-1958), un’eccellente biocristallografa che fin da giovane voleva diventare scienziata. Nel gennaio 1951 al King’s College, inizia a fare ricerca sul DNA utilizzando la tecnica della cristallografia a raggi X, nel laboratorio dove lavora anche Wilkins. Nello stesso periodo a Cambridge, anche Watson e Crick si occupano della struttura del DNA producendo diverse teorie tra cui una ipotetica tripla elica, che però non combacia con i dati sperimentali di Rosalind. Nel 1952 la svolta: Gosling, dottorando che lavora con la scienziata, scatta la più famosa immagine del DNA - la foto 51 - che ritrae DNA cristallizzato e identifica la struttura a doppia elica, cosa resa possibile grazie alla migliorata tecnica messa a punto proprio da Rosalind. Dopo aver fatto tutti i calcoli relativi alla foto 51, inizia a scrivere articoli per presentare il suo lavoro. Nel frattempo, decide di trasferirsi a Birkbeck e, non appena conferma il trasferimento, Wilkins riceve le copie del suo lavoro, compresa la foto 51, che poi condivide con Watson e Crick senza informare Rosalind. Il 25 aprile 1953 venne pubblicato su Nature il famoso articolo dei due ricercatori di Cambridge, seguito da una pubblicazione di Wilkins e una di Rosalind, dove le sue scoperte sembrano solo una conseguenza del loro lavoro. Muore di cancro nel 1958 e, pur avendo contribuito in modo sostanziale alla scoperta della struttura del DNA, non riceve alcun riconoscimento, nemmeno postumo.

In quegli anni di ricerca sul DNA, un’altra donna, Martha Chase, assieme al collega Alfred Hershey - entrambi genetisti americani - fanno un esperimento per confermare che è il DNA, e non le proteine, ad essere la sede dell’informazione genetica. Hersey vince il Premio Nobel per la medicina nel 1969 e, pur figurando come coautrice della ricerca, Martha non riceve nessun riconoscimento. Anzi, la sua carriera non procede bene e si ammala precocemente di una forma di demenza, che la porta a perdere il lavoro. Sola e dimenticata, muore nel 2003 a 75 anni in Ohio.

Pensando alla ricerca, una delle prime cose che vengono in mente oltre al DNA sono le colture cellulari. Cellule coltivate nei laboratori di tutto il mondo per analizzarne lo sviluppo, la crescita, per testare sostanze. Per fare questo e per riprodurre gli esperimenti nelle stesse condizioni, gli scienziati hanno bisogno di enormi quantità di cellule identiche. Per molti anni, tutte le linee cellulari conosciute morivano dopo pochi giorni di vita in laboratorio. Fino al 1951, anno in cui George Gey, biologo cellulare all’ospedale John Hopkins, riceve uno strano campione di cellule tumorali. Qualcosa non quadra: sono anomale sia nell’aspetto - violacee e di consistenza gelatinosa - che nel comportamento, dato che continuano a dividersi senza sosta.

Henrietta Lacks e la linea cellulare immortale
Per puro caso è stata scoperta la prima linea cellulare immortale, le cosiddette cellule HeLa, abbreviazione di Henrietta Lacks, nome della paziente da cui era stato fatto il prelievo. Le cellule normali hanno dei meccanismi di controllo che, dopo un certo numero di divisioni cellulari, inducono apoptosi, cioè una morte cellulare programmata. Le cellule HeLa hanno caratteristiche particolari, che le rendono uniche, immortali, in grado di crescere senza necessità di una superficie di supporto e molto aggressive, dato che sono in grado di contaminare altre linee cellulari. Sono stata usate per la scoperta del vaccino della poliomielite e per studiare molte malattie, ad esempio morbillo, HIV, ebola, HPV, leucemia; ci hanno permesso di scoprire come funzionano i telomeri, cioè le sequenze ripetute di DNA che servono per proteggere i cromosomi da invecchiamento cellulare e cancro; sono state le prime cellule a essere clonate e sono andate nello spazio. Intere carriere, studi, scoperte, farmaci sono stati costruiti e sviluppati utilizzando le cellule HeLa, che Gey invia ai laboratori di tutto il mondo subito dopo aver compreso l’unicità del campione cellulare.

Henrietta Lacks, legittima proprietaria di quelle cellule, è una donna di colore che vive a Baltimora con il marito e cinque figli negli anni ‘50. Henrietta Lacks ha un cancro molto aggressivo alla cervice, che l’ha uccisa dopo pochi mesi da quel fatidico prelievo. Henrietta Lacks non ha mai saputo dell’esistenza delle cellule HeLa e la sua famiglia ne è venuta a conoscenza solo negli anni ’70, dopo la morte di Gey. Nessun consenso informato. Henrietta Lacks sceglie il John Hopkins solo perché nel 1951 è l’ospedale più vicino a casa che fa visite alle persone di colore. Non parliamo di una scienziata, ma di una donna che ha dato un contributo determinante, seppur inconsapevole, alla scienza. E, a distanza di quasi 70 anni, “(…) ’ste cellule sono ancora vive, si moltiplicano, crescono e se non si tengono nel congelatore vanno dappertutto. Gli scienziati le chiamano HeLa, e lei è in tutto il mondo, negli ospedali, nei computer, in internet, dappertutto.” (La vita immortale di Henrietta Lacks – Rebecca Skloot)

La “nostra” Rita Levi Montalcini e il NGF
La storia dello sviluppo delle terapie avanzate ha per protagonista un’altra donna: Rita Levi Montalcini, unica donna italiana ad aver vinto un Premio Nobel scientifico (1986), condiviso con Stanley Cohen, biochimico statunitense. Dopo aver convinto il padre a farla studiare, si è laureata in medicina nel 1936 a Torino, per poi proseguire gli studi in Psichiatria e Neurologia. Nel 1938 arrivano le leggi razziali e Rita, di origini ebree, è costretta a emigrare in Belgio, fino all’invasione nazista che la costringe a spostarsi prima a Bruxelles e poi di nuovo a Torino, dove continua a fare ricerca a casa. È proprio in questo periodo che inizia a studiare il sistema nervoso degli embrioni di pollo. La guerra destabilizza i suoi piani, portandola a fare il medico a servizio delle Forze Alleate, ma a guerra finita torna a Torino, dove riprende le sue ricerche. Due anni più tardi, nel 1947, accetta una proposta di lavoro negli Stati Uniti dove, negli anni ‘50, scopre il fattore di crescita nervoso (Nerve Growth Factor - NGF) assieme a Cohen. NGF è una proteina naturalmente prodotta dal corpo umano coinvolta nello sviluppo del sistema nervoso e in grado di stimolare la crescita e l’attività dei neuroni, anche in coltura. L’azione attivante del NGF sulle cellule neuronali dimostra la capacità di azione di questo fattore di crescita e dà speranza per una sua possibile applicazione in ambito clinico, soprattutto per cercare di limitare i gravi sintomi delle patologie neurodegenerative. Inoltre, va contro la teoria dominante all’epoca secondo la quale il sistema nervoso sia statico. I primi risultati delle sue ricerche sono inviati a diverse riviste scientifiche italiane all’epoca, che li rifiutano: è una donna e, come se ciò non bastasse, anche di origine ebree. I suoi contatti in Belgio permettono la pubblicazione dei suoi studi, che le fanno ottenere l’invito a lavorare all’Università di St. Louis. Lavora prevalentemente negli Stati Uniti, ma in Italia crea un centro di ricerca sul NGF, fonda l’Istituto di biologia cellulare presso il CNR e fonda l’European Brain Research Institute (EBRI). Torna stabilmente in Italia nel 1979, dove viene nominata Senatrice a vita nel 2001 e muore nel dicembre 2012, all’età di 103 anni. Le applicazioni della sua scoperta sono molte e le ricerche sono ancora in corso. Nel gennaio 2018 è stato approvato dall’AIFA il farmaco cenegermin - la versione ricombinante di NGF - per il trattamento della cheratite neurotrofica, una malattia oculare rara che può portare alla perdita della vista.

Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpenier, arriva CRISPR
I tempi cambiano e la bioinformatica è diventata uno dei protagonisti degli ultimi anni, portando la ricerca dalle piastre di coltura ai database. CRISPR è figlia di questo nuovo modo di fare ricerca. Nel 2015, Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpenier sono state inserite dal Time nella lista delle 100 persone più influenti al mondo proprio per la scoperta di CRISPR. Nel 2012 hanno pubblicato l’esperimento che ha dato una scossa alla ricerca in biologia molecolare e che rivoluzionerà il settore dell’editing genetico. Jennifer è una biologa e insegna biologia molecolare e cellulare a Berkley. Dopo un dottorato a Harvard, diventa ricercatrice a Yale ed è la terza donna a vincere l’Alan T. Waterman Prize. Il viaggio alla scoperta di CRISPR l’ha fatto studiando l’RNA, un acido nucleico meno famoso del DNA, ma altrettanto importante. Nel 2011 incontra Emmanuelle Charpentier ad un convegno sulla microbiologia e inizia la collaborazione tra i loro due gruppi, uno a Berkley e l’altro a Umeả (Svezia). Emmanuelle è una microbiologa e dal 2015 dirige il Laboratorio di Biologia delle Infezioni al Max Planck a Berlino. Si è formata tra l’Istituto Pasteur e l’Università Rockefeller e, prima del Max Plank, ha lavorato in nove istituti in cinque Paesi diversi, lottando con i finanziamenti discontinui alla ricerca. Nel 2014 è la seconda donna nominata Alexander von Humboldt Professor. CRISPR sta velocemente cambiando il modo di fare ricerca e i ricercatori lo utilizzano per le applicazioni più disparate, portandosi dietro battaglie sui brevetti, implicazioni etiche, regolamenti internazionali. La più recente delle rivoluzioni in biologia è firmata da due donne.

Come si evince da queste storie, la storia della scienza consiste di una lunghissima lista di nomi quasi sempre maschili, ma non dobbiamo dimenticare le donne che, pur essendo state spesso discriminate, sottovalutate, costrette a lasciare il merito delle proprie scoperte ad altri e a combattere per il riconoscimento dei propri diritti, hanno dato un contributo di inestimabile valore alla ricerca scientifica. Ancora oggi, il mondo accademico è un ambiente in cui le donne sono scarsamente rappresentate.
“Non vedo differenze in termini di contributi tra una donna e un uomo in laboratorio. Se vogliamo proprio usare il termine discriminazione, penso che possa riferirsi alla mancanza di una base culturale che fornisca alle donne un sostegno appropriato e che eviti di stigmatizzare il suo ruolo”, commenta Anna Cereseto, Direttore del Laboratorio di virologia molecolare del CIBIO presso l’Università di Trento e membro del Comitato Scientifico di Osservatorio Terapie Avanzate. “Occorre far credere alle donne che possono riuscire nell’ambito scientifico tanto quanto gli uomini: non è l’uomo che discrimina, è la donna che, con mille impegni, non riesce a dedicarsi alla ricerca e al lavoro. Con il giusto sostegno da parte delle istituzioni e la divisione equa dei compiti casalinghi e privati, un esempio tra tutti è la maternità condivisa tra uomo e donna, potremmo fare la differenza e vedere più donne ai vertici.”

Cereseto è solo una degli scienziati donna che compongono il Comitato Scientifico dell’Osservatorio Terapie Avanzate. A farne parte sono anche: Alessandra Biffi, Professore ordinario di Pediatria all'Università di Padova, dirige la clinica di oncoematologia pediatrica e trapianto di cellule staminali ematopoietiche presso l'Ospedale Universitario di Padova dall'ottobre 2018.
Maria Domenica Cappellini, Professore Ordinario di Medicina Interna presso l’Università degli Studi di Milano, Direttore dell’Unità di Medicina Generale e Responsabile Centro delle Malattie Rare presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano.
Anna Meldolesi, Biologa e giornalista scientifica
Antonella Viola, Professore Ordinario di Patologia Generale presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova e Direttore Scientifico dell’Istituto di Ricerca Pediatrica (IRP-Città della Speranza).

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