Un’innovativa tecnologia per la selezione diretta dei linfociti T virus-specifici consente di ridurre le variabili in una procedura lunga e complessa garantendo una elevata standardizzazione
Il Citomegalovirus (CMV) e il virus di Epstein-Barr (EBV) sono causa di infezioni non particolarmente pericolose, laddove si osservi una risposta immunitaria ben sostenuta dai linfociti T. Quando, invece, questi ultimi vengono a mancare, le cose si fanno più serie: è il caso di coloro che dopo aver ricevuto un trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche (ad esempio, per il trattamento di una leucemia) si ritrovano privi di difese immunitarie, ovvero sono immunocompromessi. Secondo le stime, tra l’1 e il 5% dei 14mila pazienti che, ogni anno in Europa si sottopongono a questa procedura, sono a rischio di sviluppare un’infezione virale resistente al trattamento, con tassi di mortalità che arrivano fino al 40%. Ma un’interessante soluzione al problema arriva dalle terapie avanzate. Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Li Pira dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
LE INFEZIONI POST-TRAPIANTO
Il trapianto di cellule staminali da donatore allogenico aploidentico (tipicamente un genitore o un familiare) rappresenta un’opzione efficace e consolidata nel trattamento di numerose patologie, non solo di natura maligna. Tuttavia, allo scopo di ridurre il rischio di una reazione immunologica delle cellule del trapianto nei confronti di tessuti ed organi del ricevente (la cosiddetta “Graft versus Host Disease”, GvHD) occorre rimuovere i linfociti T che ne sono la causa. Questo processo rende il ricevente particolarmente suscettibile alle infezioni opportunistiche, in particolare virali, che sono causa di morbilità e mortalità.
“Il rischio di infezione dopo un trapianto di cellule staminali ematopoietiche è dettato da fattori legati al ricevente, fra cui il grado di immunosoppressione, lo stato immunitario nei giorni successivi al trapianto, e la presenza di GvHD”, spiega la dottoressa Giusi Li Pira, Responsabile dell’Unità Semplice di Manipolazione Cellulare presso il Dipartimento di Onco-Ematologia Pediatrica e Terapia Cellulare e Genica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. “Ma dipende anche da fattori legati al donatore, quali la sua immunocompetenza contro i virus, e dalle modalità di rimozione delle cellule T, in vivo o ex vivo”. Dopo il trapianto i pazienti devono rimanere isolati per un certo periodo di tempo, in attesa che il loro sistema immunitario recuperi completamente per fornire protezione adeguata nei confronti dei vari patogeni.
In pratica, per procedere con il trapianto che può salvare la vita al malato, è necessario privarlo dei linfociti T che potrebbero aggredire le cellule del paziente. Ciò lo espone però a infezioni, come quelle da Citomegalovirus (CMV), virus di Epstein-Barr (EBV) o Adenovirus (AdV), con conseguenti complicanze più o meno gravi dovute al fatto che i virus non trovano ostacoli alla replicazione nell’organismo.
LA GESTIONE DEL PROBLEMA
Il primo approccio a questa problematica consiste nella terapia farmacologica. Tuttavia, a causa della resistenza dei patogeni, i farmaci usati non sempre sono efficaci e presentano una elevata tossicità. Inoltre, essi non hanno alcuno effetto nel ripristino dei linfociti T (ristabilire l’immunità antivirale può richiedere fino a sei mesi). Tutto ciò ha spinto i ricercatori a cercare nuove opzioni di trattamento. “Quando il paziente non risponde alla terapia farmacologica si può valutare la terapia cellulare adottiva”, afferma Li Pira. “L’approccio per controllare le infezioni virali fino al ripristino del sistema immunitario del paziente trapiantato consiste proprio nella somministrazione di linfociti virus-specifici (VST)”.
Tale soluzione non è nuova ed è stata realizzata con modalità differenti: la prima si basa sull’utilizzo di linfociti T non manipolati del donatore (Donor Lymhocyte Infusion, DLI). Questa popolazione infusa però, oltre a linfociti T selettivamente impegnati nell’attività antivirale, contiene anche cellule in grado di indurre o esacerbare una reazione di GvHD. “Per aggirare questo effetto indesiderato, i ricercatori hanno pensato di modificare geneticamente i linfociti T da reinfondere, introducendo un gene ‘suicida’, cioè codificante un prodotto silente ed innocuo per la cellule che può però essere attivato a seguito della somministrazione di un farmaco specifico, ottenendo così un prodotto tossico per la cellula”, spiega Li Pira. “Tuttavia, questo comporta anche l’eliminazione dei linfociti T antivirus, che erano l’obiettivo principale della DLI. Pertanto questa soluzione, più che come trattamento antivirale, rimane oggi un’opzione per il controllo della recidiva tumorale”.
Un’altra soluzione consiste nel generare linee di cellule T virus-specifiche, mediante cicli di ripetute stimolazioni in vitro con antigeni virali, con lo scopo di arricchire la componente terapeutica antivirale e rimuovere la componente alloreattiva indesiderata. “Sebbene concettualmente impeccabile, questo approccio è molto complesso e richiede diverse settimane per ottenere il prodotto cellulare”, precisa la ricercatrice, “quindi non applicabile a pazienti che richiedono interventi urgenti”. Per proteggere dalle infezioni post-trapianto, senza aumentare il rischio di GvHD, un altro approccio che ha dato buoni risultati clinici si basa sulla rimozione della componente alloreattiva T mediante deplezione ex vivo de linfociti T esprimenti il marcatore CD45RA.
UNA NUOVA SOLUZIONE
Un passo notevole è stato reso possibile grazie alla selezione diretta dei linfociti T virus-specifici mediante la procedura di cattura delle citochine (Cytokine Capture System, CCS) che, senza espansione in vitro, consente di selezionare positivamente i linfociti T con una determinata specificità. Le cellule in questo modo non subiscono ulteriori manipolazioni e sono rese immediatamente disponibili per l’infusione nel paziente. “A differenza della DLI, in cui le cellule non erano manipolate e contenevano sia linfociti T virus-specifici che linfociti T alloreattivi, tramite la CCS le cellule sono purificate in termini di specificità e pronte per l’infusione con notevole risparmio di tempo” chiarisce ancora Li Pira.
In questo metodo, la citochina chiave è l’interferone-gamma (IFNg) prodotto dalle cellule T virus-specifiche dopo stimolazione antigenica. In presenza di una miscela di peptidi virali sintetici, i linfociti T specifici vengono attivati e secernono IFNg il quale viene localizzato sulla superficie del linfocita T stesso grazie ad un anticorpo bispecifico (anti-CD45 che lo fa aderire al linfocita e anti-IFNg che cattura la citochina). In seguito, le cellule vengono trattate con un secondo anticorpo anti-IFNg coniugato a microbiglie paramagnetiche e i linfociti T virus-specifici e IFNg-positivi ad esse legati vengono selezionati positivamente dopo eluizione da una colonna magnetica. Queste operazioni possono essere semi-automatizzate, usando uno strumento noto come CliniMACS Instrument, o completamente automatizzate, usando il CliniMACS Prodigy, strumento che svolge tutte le operazioni per la produzione dei linfociti T specifici: dalla stimolazione antigenica, ai lavaggi, alla marcatura delle cellule fino alla selezione positiva attraverso una colonna magnetica.
AUMENTA L’AUTOMAZIONE E CON ESSA IL LIVELLO DI STANDARDIZZAZIONE
“L’automazione permette di ridurre la variabilità associata all’intervento umano in un processo composto da diversi e delicati passaggi sequenziali”, spiega Li Pira. “La procedura di selezione dei linfociti T specifici dura circa 12 ore, ma grazie a strumenti come il CliniMACS Prodigy, tutti i passaggi necessari vengono svolti in modo automatico ed integrato. Perciò il tempo che l’operatore deve manualmente dedicare alla procedura è minore e la resa qualitativa si conferma migliore”. Quindi, la selezione completamente automatizzata di linfociti T multi-specifici per CMV, EBV e AdV con il CliniMACS Prodigy fornisce prodotti cellulari standardizzati e consente di effettuare studi clinici multicentrici con risultati comparabili.
“I dati pubblicati fino ad oggi indicano che il trasferimento adottivo delle cellule T virus specifiche post-trapianto protegge il 70-90% dei pazienti dalle complicanze virus-correlate e ripristina l’immunità delle cellule T, in particolare per AdV, CMV ed EBV, senza tossicità secondarie”, afferma Li Pira.
FARE RETE PER GARANTIRE IL MIGLIOR TRATTAMENTO A TUTTI
Nonostante questi risultati promettenti, il trasferimento di cellule T virus-specifiche non è ancora un “gold standard” nella pratica clinica quotidiana a causa della mancanza di estesi studi clinici prospettici e controllati, che ne confermino l’efficacia nel controllo delle infezioni virali refrattarie post-trapianto allogenico. Per poter realizzare trial clinici di questo genere sono necessari sforzi multinazionali e strumenti automatizzati che garantiscano la massima standardizzazione delle procedure, come il CliniMACS Prodigy.
“Attualmente è in corso uno studio clinico multicentrico europeo di Fase III, in doppio cieco, controllato con placebo – denominato TRACE – che ha l’obiettivo di testare l'efficacia delle cellule T multivirus-specifiche e rendere questo trattamento uno “standard of care” nella routine clinica per il trattamento delle infezioni virali refrattarie”, conclude Li Pira. “A tale studio partecipa un consorzio di 9 centri europei, secondo un modello nel quale essi, in accordo a procedure condivise ed armonizzate e strumenti automatizzati, si occupano della produzione delle cellule T multivirus specifiche, utilizzando il sistema di cattura delle citochine. Le cellule T multivirus-specifiche generate in questo studio sono dirette contro tutte e tre le più comuni infezioni virali post-trapianto: AdV, CMV ed EBV. Questo consentirà di ripristinare l’immunità delle cellule T per combattere e prevenire nuove infezioni virali. Dopo esser uscite dai siti di produzione le cellule possono tornare agli ospedali che hanno reclutato i pazienti per la somministrazione”.
Oltre all’elevato livello qualitativo dei sistemi di produzione delle cellule, questo studio rappresenta un modello di collaborazione internazionale che si pone l’obiettivo di migliorare la sopravvivenza e la qualità della vita dei malati, con evidenti benefici e una sensibile riduzione dei costi assistenziali.