Interrogativi

Gli interrogativi emersi in questi ultimi mesi in ambito bioetico sono molteplici e toccano argomenti molto diversi: tra questi, la vendita di trattamenti non autorizzati e l’epidemiologia digitale

I trattamenti non autorizzati a base di cellule staminali fanno capolino anche nell’emergenza sanitaria: a circa due mesi dalla dichiarazione di pandemia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono molteplici le aziende americane che stanno approfittando della situazione disperata per venderle a caro prezzo. Molte cliniche hanno una storia di vendite di questa tipologia di prodotto e, da quando è arrivata la COVID-19, si sono adeguate alle nuove esigenze di mercato, pur mancando le prove scientifiche a sostegno del loro utilizzo. Restando in tema bioetico, sta diventando virale il dibattito legato all’epidemiologia digitale - cioè l’utilizzo di dati generati al di fuori del sistema sanitario pubblico per la sorveglianza delle malattie – soprattutto per quanto riguarda l’omogeneità dell’applicazione delle tecnologie digitali e per la privacy.

Le cellule staminali

Dopo l’allerta lanciata dall’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) - attraverso le raccomandazione del Comitato per le Terapia Avanzate (CAT) - per mettere in guardia i pazienti contro l'uso di terapie cellulari non approvate e non regolamentate, l’attenzione si sposta adesso sugli Stati Uniti. Alcune cliniche private americane, le stesse che fino a poco tempo fa vendevano “cure” e “terapie” per patologie per le quali al momento non esiste soluzione, stanno lucrando su trattamenti a base di cellule staminali non autorizzati e potenzialmente pericolosi per la COVID-19. Dalle strategie di marketing aggressivo ai riferimenti scientifici a trial preclinici ben lontani dalla sperimentazione sull’uomo: il classico armamentario delle aziende di questo tipo.

Come afferma Leigh Turner – professore associato all’University of Minnesota Center for Bioethics e studioso del fenomeno delle cliniche che vendono terapie a base di cellule staminali non autorizzate - sull’articolo pubblicato il 6 maggio sulla rivista Cell Stem Cell, alcune cliniche restano un po’ più nell’ombra, limitandosi a minime e vaghe pubblicità (forse per evitare problemi con gli enti regolatori), mentre altre sono molto più dirette. Le promesse sono varie: rafforzare il sistema immunitario per proteggersi dal virus, curare i danni a livello dei polmoni, fornire una sorta di immunità a livello polmonare, ridurre l’infiammazione. Un altro business è legato alle biobanche e prevede la conservazione delle cellule staminali dell’individuo per non si sa bene quale tipo di trattamento in seguito a infezione da SARS-CoV-2. "Ho trovato più esempi di aziende che vendono prodotti a base di cellule staminali per COVID-19 di quanto non avessi spazio per descriverli in dettaglio", commenta Turner. "Non mi ha sorpreso la rapidità con cui alcune di queste aziende hanno iniziato a fare queste affermazioni. Per loro, la pandemia di COVID-19 è un'opportunità per generare un nuovo flusso di entrate."

Ad oggi, non sono stati conclusi studi clinici sull’utilizzo delle cellule staminali per la COVID-19: prima della commercializzazione, è necessario predisporre trial clinici controllati e randomizzati per stabilire efficacia e sicurezza di questi trattamenti. Questo perché i risultati degli studi preclinici su modello animale o di quelli clinici su un numero limitatissimo di persone (ad esempio, ci sono stati piccoli studi in Cina) non sono una evidenza scientifica solida tale da giustificarne l’applicazione sugli esseri umani. Nel documento si fa riferimento a diverse organizzazioni del settore che hanno condannato queste pratiche discutibili. Tra queste, l’International Society for Stem Cell Research (ISSCR), l’Alliance for Regenerative Medicine (ARM), l’International Society for Stem Cell and Gene Therapy (ISCT) e Eurostemcell. La loro opinione ha un certo peso, anche se la fase di azione per limitare questo mercato spetta agli enti regolatori.

“Ciascun mondo ha il suo virus - afferma il professor Michele De Luca, direttore del Centro di Medicina Rigenerativa “Stefano Ferrari” dell’Università di Modena e Reggio Emilia e membro del Comitato scientifico di Osservatorio Terapie Avanzate - Nonostante i tanti appelli e prese di posizione, la diffusione di queste cellule poco caratterizzate, che nulla hanno a che vedere con le cellule staminali e che non hanno mai dimostrato di poter curare nessuna malattia, sembra inarrestabile. Anche per questa pandemia dovremo trovare presto un vaccino”.

Le tecnologie digitali

La pandemia causata dal SARS-CoV-2 ha sollevato anche preoccupazioni etiche relativamente all’epidemiologia digitale. Come descritto in uno studio pubblicato l’11 maggio su Science, l’individuazione dei casi, la ricerca dei contatti, l’isolamento e la quarantena hanno evidenziato il problema delle nuove fonti di dati raccolti (cellulari, dispositivi wearable come gli smartwatch, videosorveglianza, social media, profilazione tramite ricerche sul web) per la sorveglianza della salute pubblica. Il sottotitolo dello studio è “la questione non è se useremo le nuove fonti di dati, ma come” e un’altra possibile domanda potrebbe essere “quando la salute pubblica diventa più importante dei diritti del singolo?”. Infatti, alcuni hanno espresso dubbi relativamente alla privacy e alla distribuzione omogenea di questi strumenti in tutte le fasce della popolazione, dubitando della reale efficacia ed evidenziando i rischi legati ai dati. La risposta riportata nello studio è che “a volte non è etico non utilizzare i dati disponibili”.

Gli esempi di altri Paesi, come la Corea del Sud e Taiwan, dimostrano che la trasparenza da parte degli enti e del governo può aumentare la fiducia della popolazione nei processi decisionali che riguardano la collettività. Purtroppo, non sempre questi processi seguono percorsi virtuosi e, anche in Paesi come gli Stati Uniti, le proposte di utilizzo della tecnologia si sono diffuse attraverso i media e non tramite i canali ufficiali, minando la fiducia delle persone nei confronti delle istituzioni. Inoltre, spesso non è ancora chiaro come gli enti supervisioneranno questi meccanismi di controllo in tutti i Paesi, anche se è un aspetto piuttosto fondamentale.

Il problema alla base di entrambi i discorsi è che le persone cambino il proprio atteggiamento a causa di queste azioni e riflessioni. Ad esempio, il caso del “pubblicizzato” trattamento a base di cellule staminali potrebbe alimentare false speranze nei confronti di percorsi non autorizzati e ridurre l’interesse verso trattamenti basati su evidenze scientifiche solide, minando la fiducia nella ricerca secondo le regole. Nel caso delle tecnologie digitali - come le tanto discusse app per il contact tracing - se le istituzioni mancassero di trasparenza e chiarezza, una percentuale troppo alta di popolazione potrebbe non rispettare le indicazioni, rendendo inutile lo strumento.

Ovviamente, l'etica al tempo della COVID-19 non si limita a questi due argomenti. Alcuni temi emersi in questi mesi riguardano le indicazioni sulle modalità di triage in caso di mancanza di letti in ospedali, la gestione di disabilità e malattie rare e gravi, la coordinazione del personale ospedaliero a rischio burn-out e con alta percentuale di infezioni a causa della mancanza di dispositivi per la protezione individuale (DPI), la discrepanza tra il numero di deceduti nella popolazione afroamericana rispetto al resto degli americani. Questi sono solo alcuni esempi, ma sottolineano il grande lavoro che i bioeticisti, in collaborazione con tutto il mondo scientifico, politico e regolatorio, dovrebbero portare avanti. Ancora una volta, il Coronavirus ci ricorda quanto sia importante la collaborazione a 360 gradi, aspetto fondamentale nel caso di una disciplina multidisciplinare come la bioetica.

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