Una delle nuove frontiere di ricerca nell’ambito della terapia genica mira alla sostituzione dei vettori virali con nuove tecnologie che dovrebbero superare i limiti ora esistenti e ridurre i costi
Un articolo dal titolo “Why gene therapies must go virus-free”, pubblicato a giugno su Nature Biotechnology, affronta il tema del superamento dell’utilizzo dei vettori virali per la somministrazione delle terapie geniche. Sebbene i progressi fatti negli ultimi decenni siano stati incredibili e abbiamo permesso di portare sul mercato terapie per malattie precedentemente senza opzioni di trattamento, è indubbio che le terapie geniche siano molto costose e che l’utilizzo dei vettori virali abbia dei limiti. Le aziende biotecnologiche si trovano ora di fronte a una nuova sfida: sostituire i vettori virali con altri approcci, con il fine ultimo di abbassare le spese per lo sviluppo di nuove terapie e superare le problematiche che attualmente sussistono con l’utilizzo dei virus modificati.
La ricerca di metodi innovativi per il rilascio di acidi nucleici nelle cellule sta viaggiando lungo diversi percorsi: nanoparticelle lipidiche (di cui abbiamo parlato di recente qui), nanoparticelle proteiche, nanocarrier, metodi fisico-chimici sono solo alcuni esempi di approcci in fase di studio per superare l’utilizzo di vettori virali. Questi ultimi, in particolare quelli derivati da virus adeno-associati e lentivirali, sono stati gli assoluti protagonisti delle terapie geniche oggi si trovano sul mercato. Il loro ampio utilizzo – se così si può dire, essendo solo 14 le terapie geniche approvate in Europa (di cui 6 CAR-T, che rientrano nella definizione di terapia genica) – ne ha messo in evidenza i limiti e le problematiche.
Come descritto nell’articolo pubblicato su Nature Biotechnology, un primo problema riguarda strettamente la produzione, a causa delle grandi quantità di vettore necessarie per produrre un farmaco. Inoltre, nei vettori virali il carico trasportabile è piccolo, fattore che riduce le possibili applicazioni, a cui si aggiunge il rischio di tossicità epatica e il problema della risposta immunitaria, che rende impossibile ridosare il farmaco senza innescare una risposta immunitaria potenzialmente molto pericolosa. Non vanno tralasciati il rischio di oncogenicità, conseguente all’integrazione cromosomica e alla mutagenesi, e quello (teorico) della replicazione del virus stesso. Pur consapevoli di questi problemi, le tecnologie non virali devono soddisfare diversi requisiti: essere in grado di contenere e trasportare il carico, consegnarlo dove previsto, non dare problemi di immunogenicità, essere sicuri e avere costi di produzione più contenuti.
L'introduzione a livello mondiale dei vaccini a mRNA per la COVID-19, basati su nanoparticelle lipidiche, ha dimostrato che è possibile produrre e somministrare miliardi di dosi, anche ripetute, di una forma di acido nucleico. Esiste tuttavia una differenza sostanziale tra la somministrazione di mRNA alle cellule presentanti l'antigene localmente nel muscolo e la somministrazione di DNA incapsulato in nanoparticelle lipidiche, o di altri carichi, al nucleo delle cellule all'interno dei tessuti bersaglio, siano essi fegato, muscoli, polmoni, cuore o altri organi, evitando di scatenare risposte immunitarie innate. Il targeting cellulare deve essere più sofisticato, mentre il carico di DNA può richiedere una modifica per garantire una localizzazione efficiente nel nucleo al momento dell'ingresso nella cellula.
Sono diverse le aziende che hanno deciso di investire in ricerche che riguardano terapie geniche “non virali”. Tra quelle citate dall’articolo, Intergalactic Therapeutics prevede di avviare entro l'anno prossimo la sperimentazione clinica di una terapia genica che impiega l'elettroporazione in vivo (una tecnica che prevede l’apertura di pori nella membrana cellulare) per veicolare molecole di DNA circolari nelle cellule della retina. La ReCode Therapeutics è appena entrata in clinica con un composto di nanoparticelle lipidiche nebulizzato che distribuisce l'mRNA che codifica per una proteina nei polmoni di pazienti affetti da discinesia ciliare primaria derivante da mutazioni nella catena intermedia assonemale della dineina 1 (DNAI1). Anche Generation Bio si sta focalizzando sulle nanoparticelle lipidiche, in questo caso si tratta di una sperimentazione in fase preclinica per il trattamento dell’emofilia. Il carico trasportato è infatti un DNA codificante per il Fattore VIII. SQZ Biotechnologies è l’azienda in fase più avanzata, cioè in Fase I/II, e sta lavorando a una terapia per tumori solidi positivi all’HPV16.
Anche escludendo l’utilizzo di virus resta il problema del fegato, organo che – nel pieno rispetto delle sue funzioni - elimina sia vettori virali che non virali dalla circolazione, oltre a molecole e nanoparticelle. Questo limita l’efficacia delle terapie non destinate a quell’organo. Generation Bio ha affermato che sta sviluppando una soluzione per evitare il fegato, ma ancora non si conoscono i dettagli. Non è di certo l’unica biotech ad investire su questo fronte: nell’articolo sono diverse le aziende citate che stanno lavorando a tecnologie innovative con l’obiettivo di superare questi ostacoli.
Lo scopo finale del superamento dell’utilizzo dei vettori virali è quello di far diventare la somministrazione di una terapia genica più simile a quella dei farmaci biologici: non one-shot con la dose massima tollerata in sicurezza, ma più dosi ben tollerate e adattate alle necessità specifiche del paziente. Questo per ovviare all’immunogenicità e al problema dell’espressione del gene trasferito, che può diminuire nel tempo. L’obiettivo non è scontato e sul percorso sorgeranno ostacoli e probabilmente alcuni fallimenti, ma queste alternative iniziano a prendere forma nei laboratori di ricerca.