A sinistra Stanislao Rizzo, al centro i piccoli pazienti e la mamma, a destra Giancarlo Iarossi

Hanno 8 e 3 anni i bambini senegalesi, affetti da amaurosi congenita di Leber, trattati con successo grazie alla collaborazione tra il Policlinico Gemelli e l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma

Gli occhi sono la nostra finestra sul mondo e solo un bambino ipovedente potrebbe spiegarci che cosa vuol dire cercare di intravedere cosa c’è fuori attraverso le tende chiuse. “Era passato meno di un mese dall’intervento quando mio figlio, guardandomi in viso, mi ha detto: Sai una cosa, mamma? Hai degli occhi bellissimi”, racconta mamma Maguiette con la voce rotta dalla commozione. Qualcuno aveva aperto le tende e Abdou riusciva a vedere, per la prima volta in otto anni, gli occhi di sua madre. Il bambino e la sorellina minore Asia, infatti, sono nati affetti da una grave forma di distrofia retinica ereditaria a esordio precoce: l’amaurosi congenita di Leber. Solo in seguito al trattamento con la terapia genica hanno riacquistato importanti capacità visive. Gli interventi sono stati eseguiti in collaborazione dalle unità di Oculistica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù nell’ambito di un progetto avviato nel 2021 per la gestione comune di pazienti pediatrici e adulti affetti da degenerazioni retiniche ereditarie.

L’AMAUROSI CONGENITA DI LEBER

Con un’incidenza di 3 casi ogni 100.000 nuovi nati la malattia di Abdou e Asia, l’amaurosi congenita di Leber, si aggiudica il gradino più alto del podio come causa più frequente di cecità infantile ereditaria. Oltre alla marcata ipovisione (campo visivo ristretto, difficoltà di visione notturna o crepuscolare e scarsa acuità visiva), i bambini che sono affetti da questa patologia mostrano spesso nistagmo (movimenti oculari erratici e caotici) e segni oculo-digitali (pressione e strofinamento del bulbo oculare con le mani).

LA STORIA DI ABDOU

Abdou aveva solo sei mesi quando ho iniziato ad accorgermi che c’era qualcosa che non andava nei suoi occhi: cercava i giocattoli a tentoni, non riusciva a individuare e afferrare gli oggetti, spesso teneva lo sguardo fisso e aveva sempre un’aria spersa, smarrita”, racconta mamma Maguiette. “All’epoca eravamo ancora in Senegal, ma ci siamo attivati subito per far visitare il bambino. Nonostante i controlli, però, nessuno riusciva a capire che malattia fosse. Così, visto che mio marito si era già stabilito a Sassari da parecchi anni, ho deciso di raggiungerlo per poter far visitare Abdou in Italia”, prosegue Maguiette.

“Anche qui, purtroppo, le nostre peregrinazioni da un ospedale all’altro sono continuate: prima Sassari, poi Olbia, infine Siena, perché i medici sospettavano che alla base dei problemi di vista di Abdou ci fosse un tumore”, spiega la mamma. “Scongiurata questa eventualità io e mio marito abbiamo continuato a fare ricerche per individuare un ospedale adatto ad accogliere il nostro bambino. È stato così che abbiamo deciso di andare a Roma, all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, e qui, finalmente, è arrivata la diagnosi”.

LA DIAGNOSI

Vista l’estrema eterogeneità della malattia, spesso i bambini affetti da questa forma di distrofia retinica affrontano iter diagnostici molto lunghi e complessi. “La diagnosi, infatti, arriva solo al termine di un percorso clinico e strumentale che prevede esami di natura funzionale, morfologica e genetica”, spiega il dottor Giancarlo Iarossi, referente del percorso sulle distrofie retiniche all’interno dell’unità di Oculistica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù dove sono stati presi in carico i due fratellini.

“Per la piccola Asia il percorso diagnostico è stato facilitato dalla familiarità, in quanto sorellina di un nostro paziente per il quale avevamo già fatto la diagnosi”, spiega Iarossi. Prima ancora che Asia fosse andata a fare la sua prima visita di controllo in ospedale, però, qualcuno aveva già individuato con certezza la sua patologia: la mamma. “Ho capito subito che aveva la stessa malattia del fratello”, racconta. “L’avevo intuito ancora prima che si manifestassero i sintomi: Asia aveva gli stessi occhi spersi di Abdou”.

“Nei bambini piccoli è impossibile effettuare la diagnosi solo osservando il fenotipo (espressione clinica della patologia), ma sono necessari esami di secondo livello, più approfonditi. Ci sono esami funzionali, come l’elettroretinogramma, che permettono di controllare la funzionalità elettrica della retina e di individuare quale possa essere la popolazione cellulare maggiormente affetta. Poi ci sono gli esami di natura morfologica, come la tomografia retinica (OCT – Tomografia a Coerenza Ottica), esame ultra strutturale che per i più piccoli viene effettuato in narcosi e che permette di avere una risoluzione degli strati retinici chiara e ben delineata, quasi come se si avesse a disposizione un vetrino istologico”, spiega l’esperto dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. “Ultimo, ma non per importanza”, conclude il dottor Iarossi, “è l’esame genetico, fondamentale per caratterizzare il difetto molecolare alla base della malattia e per stabile quali percorsi terapeutici intraprendere”.

Le distrofie retiniche ereditarie, infatti, possono essere causate dalla mutazione di molteplici geni. “Basti pensare alla retinite pigmentosa per la quale i geni responsabili possono essere più di 80”, afferma il dottor Iarossi. “La terapia genica, al momento, è disponibile solo per i pazienti che presentano la mutazione di un singolo gene. Va da sé capire quanto sia importante l’esame genetico per capire quali siano i pazienti candidabili al trattamento”.

LE MUTAZIONI GENETICHE

Nel caso di Asia e Abdou, come per molti altri bambini affetti dall’amaurosi congenita di Leber, il gene responsabile è uno solo: RPE65. Si tratta del gene specifico dell'epitelio retinico pigmentato, il cui ruolo è quello di risintetizzare il pigmento retinico fotoeccitabile (rodopsina), proteina chiave nel processo di conversione della luce in segnale elettrico. I pazienti che presentano una mutazione del gene RPE65 hanno problemi di visione notturna, mostrano un marcato restringimento del campo visivo e possono manifestare una grave e progressiva riduzione della capacità visiva fino alla cecità. Si tratta, pertanto, di una malattia degenerativa, responsabile di grave invalidità, sia sul piano della formazione scolastica che dell’inserimento nel mondo del lavoro.

LA TERAPIA GENICA

La terapia genica voretigene neparvovec (nota anche con il nome commerciale Luxturna) consiste in una singola iniezione - one shot - nello spazio sottoretinico di entrambi gli occhi di una copia funzionante del gene RPE65. “Il gene sano è veicolato all’interno delle cellule da un adenovirus associato, con patrimonio genetico modificato, che agisce come vettore”, spiega il dottor Iarossi. “Sfruttiamo la capacità del virus di infettare le cellule della retina e dell’epitelio pigmentato. Una volta arrivata a destinazione la copia funzionante del gene è in grado di ripristinare il ciclo dei retinoidi che si era interrotto con la malattia e di far recuperare ai pazienti parte delle capacità visive in modo significativo e duraturo”.

I primi studi su voretigene neparvovec risalgono al 2007 e, durante il lungo percorso sperimentale, è stato possibile esaminare accuratamente i parametri di sicurezza ed efficacia del farmaco. Sono passati cinque anni dall’approvazione del farmaco da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense e tre dall’autorizzazione in Europa. Nel 2021 anche l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha approvato la terapia genica sviluppata da Novartis che è rimborsabile dal Sistema Sanitario Nazionale per il trattamento dei pazienti, adulti e pediatrici, affetti da rare forme di distrofia ereditaria della retina.

CRITERI DI ACCESSO ALLA TERAPIA GENICA

Per poter accedere al trattamento sono stati stabiliti dei parametri di inclusione clinica specifici. È di fondamentale importanza la corretta caratterizzazione clinica della distrofia retinica e l’identificazione della mutazione del gene RPE65 attraverso un test genetico, al fine di arrivare ad una corretta diagnosi, valutare lo stato di progressione della malattia e impostare la possibile strategia terapeutica.

“Inoltre, è necessario monitorare tutta una serie di parametri clinici e funzionali”, specifica il dottor Giancarlo Iarossi. “Prima di accedere all’intervento chirurgico, i pazienti vengono sottoposti a una serie di esami oftalmologici, fra cui il test dell’acuità visiva, l’esame del campo visivo e del fondo oculare, la soglia di sensibilità alla luce di coni e bastoncelli e la misurazione delle spessore della retina centrale”. Infatti, per poter affrontare l’intervento chirurgico di somministrazione della terapia genica gli occhi dei pazienti devono rispondere a determinati criteri, fra cui un adeguato spessore della retina.

“Infine”, conclude il dottor Iarossi, “c’è la soglia dell’età. Vista la delicatezza dell’intervento di chirurgia vitreo-retinica i pazienti trattati devono avere almeno tre anni. Asia, che aveva appena compiuto i 36 mesi, è stata la paziente più giovane in Italia ad aver ricevuto questo trattamento”.

I MIGLIORAMENTI

Il primo a ricevere la terapia genica è stato Abdou, che è in cura presso l’unità di Oculistica del Bambino Gesù da quando aveva tre anni. La diagnosi di distrofia retinica RPE65, confermata dai test genetici, gli ha permesso di essere inserito nel registro dei pazienti candidati al trattamento subito dopo l’approvazione AIFA. La terapia gli è stata somministrata all’occhio destro nell’ottobre del 2021 e al sinistro a dicembre dello stesso anno.

“Il percorso di follow-up, completato a febbraio del 2022, ha evidenziato un significativo miglioramento di tutti i parametri visivi soggettivi”, spiega il dottor Iarossi. “Abdou ha presentato un aumento dell’acuità visiva (capacità di discriminare i dettagli), un allargamento del campo visivo (capacità di vedere perifericamente o ‘con la coda dell’occhio’) e un miglioramento della visione crepuscolare. Lo stesso vale per i parametri oggettivi attraverso test specifici quali l’FST (test che valuta la sensibilità dei coni e bastoncelli)”.

“Prima della terapia genica mio figlio dipendevano da me per quasi tutte le incombenze quotidiane, dall’allacciarsi le scarpe al salire e scendere dalla macchina”, racconta Maguiette. “Adesso Abdou mi chiede di non tenerlo per mano, ‘Ce la faccio da solo, mamma, ci vedo!’. A scuola riesce a leggere anche i libri dei suoi compagni di classe e non solo i suoi ‘libretti speciali’ scritti in caratteri ingranditi. Appena arriva a casa si mette a fare i compiti da solo: vuole dimostrarmi che adesso è capace e indipendente”, racconta orgogliosa la mamma. “In questi mesi è maturato tantissimo, anche dal punto di vista psicologico. Vorrebbe anche iniziare a fare sport, è ancora indeciso, ma gli piacciono sia il nuoto che il judo”.

La sorellina Asia ha ricevuto il primo trattamento a febbraio del 2022 e il secondo a giugno. Anche per lei il follow-up ha evidenziato un significativo recupero della vista. “Anche Asia è migliorata tanto. Visto che non parla ancora molto bene non è stata in grado di riferirmi le sue sensazioni, ma io ho notato che non inciampa più, che riesce ad afferrare con facilità i suoi giocattoli e a distinguere bene i colori e le forme. Anche le maestre della scuola dell’infanzia si sono accorte della differenza”, spiega Maguiette.

LE PROSPETTIVE

“La terapia genica per la degenerazione retinica a trasmissione ereditaria rappresenta la prima concreta cura per prevenire o correggere il decadimento completo della funzione visiva e riveste un ruolo fondamentale per future strategie terapeutiche”, afferma Giancarlo Iarossi. “Altre forme di distrofie retiniche causate da diverse mutazioni geniche sono al momento oggetto di studi clinici in fase avanzata. Negli ultimi anni abbiamo creato una rete di ospedali e centri specialistici italiani che studiano i pazienti affetti dalle distrofie retiniche ereditarie e di cui fanno parte il Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Luigi Vanvitelli di Napoli, l'Azienda Ospedaliera Meyer e l’Ospedale Careggi di Firenze e altre eccellenze italiane. Questa collaborazione è nata proprio per unire le forze e non disperdere i pazienti, dando loro la possibilità di rivolgersi a centri specializzati nella gestione della patologia e capaci di instradarli verso la migliore opzione terapeutica al momento disponibile per loro. L’auspicio degli operatori coinvolti è di continuare questo progetto e di estenderlo nell’immediato futuro ad altre mutazioni”.

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