Martino Gianvito

La ricerca è molto attiva in tutto il mondo ma l’Italia è all’avanguardia. Il prof. Gianvito Martino, del San Raffaele di Milano, ci racconta i progressi degli ultimi venti anni per questa patologia neurodegenerativa

Sabato 30 maggio è la giornata mondiale della sclerosi multipla, una grave malattia infiammatoria e neurodegenerativa. È una patologia cronica dovuta a una reazione anomala delle difese immunitarie, che attaccano alcuni componenti del sistema nervoso centrale, ed in particolare la mielina che ricopre i nervi e li rende efficienti. Si manifesta in forme di diversa gravità che, semplificando, possono essere la recidivante-remittente, caratterizzata da episodi acuti di malattia e altri di benessere, e la progressiva, contraddistinta da un peggioramento delle funzioni neurologiche. Se negli ultimi 30 anni molto è stato fatto per la prima forma, che oggi può contare su oltre una decina di farmaci efficaci, quella progressiva resta ancora “una malattia orfana” come la definisce il professor Gianvito Martino, Direttore Scientifico IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e pioniere della ricerca sulle cellule staminali per la cura della SM. Ne abbiamo parlato con lui, per capire a che punto è la ricerca.

Professor Martino, circa venti anni fa lei è stato uno dei primi a pensare di usare la terapia cellulare per combattere la sclerosi multipla, come nacque l’intuizione?

A metà degli anni ’90 sono state sviluppate delle tecnologie che permettevano di coltivare in laboratorio grandi quantità di cellule staminali del cervello (neurali), prerequisito per poi poterle trapiantare. Sulla scia di questo entusiasmo, e delle potenzialità di cura che ci aspettavamo, abbiamo pensato di usarle per ricostruire la mielina. Il primo studio non andò benissimo, nel senso che non ottenemmo quello che speravamo - cioè che le cellule trapiantate si trasformassero in cellule capaci di produrre nuova mielina - ma ci permise di scoprire un nuovo meccanismo d’azione delle cellule staminali. Un caso di “serendipity”, che mostrò, appunto, che le cellule staminali potevano ridurre l’impatto della malattia semplicemente rilasciando sostanze con un effetto terapeutico. Il lavoro ebbe un’ampia diffusione a livello internazionale perché si trattava di un’idea innovativa e provocatoria.

Nel 2017 ha avviato il primo studio al mondo per valutare la sicurezza dell’infusione di cellule staminali neurali nelle persone con SM. Come sta andando?

I dati sono interessanti. Abbiamo somministrato cellule staminali neurali in 12 pazienti con sclerosi multipla progressiva per via intratecale, con una puntura lombare, per cercare di essere meno invasivi possibile. I partecipanti sono stati divisi in quattro coorti da tre pazienti ciascuna, a cui abbiamo dato una dose via via più alta di cellule staminali, con intervalli di tre mesi tra un gruppo e l’altro: siamo partiti da 50 milioni fino ad arrivare a mezzo miliardo di cellule. Ad oggi i primi nove pazienti hanno finito il follow-up di due anni. Gli ultimi tre invece hanno terminato il primo dei due previsti. Il prossimo anno questo trial sarà concluso e per ora non è stato segnalato nessun effetto collaterale grave. Ma stiamo parlando di una Fase I, che valuta la sicurezza dell’approccio. Non possiamo ancora esprimerci sull’efficacia, perché il numero di persone sul quale è stato sperimentato è talmente basso che non ci permette di estrapolare alcunché. Il passo successivo sarà uno studio di Fase II, per valutare l’efficacia.

Qual è il meccanismo d’azione delle cellule staminali neurali?

Possiamo ipotizzarlo in base ai dati raccolti in sperimentazioni precliniche su topi e scimmie. L’idea è che le cellule staminali, una volta iniettate a livello lombare, circolino dentro il liquido cefalorachidiano rilasciando una serie di sostanza antiinfiammatorie, rigenerative e neuroprotettive. Queste dovrebbero stimolare il tessuto non danneggiato, e rimasto ancora funzionante, ad autorigenerarsi. In generale noi abbiamo questa capacità innata di autoriparare il nostro sistema nervoso e le staminali neurali possono favorirla secernendo sostanze capaci di attivare questi meccanismi autoriparativi quando iniettate all’interno di un tessuto. Con questo meccanismo le cellule sopravvissute sono stimolate a produrre nuova mielina, evitare che gli assoni si danneggino e così via. È il cosiddetto effetto “bystander” che descrivemmo noi per la prima volta intorno agli anni 2000, con un lavoro pubblicato su una prestigiosa rivista internazionale, che, devo dire, nel tempo ha cambiato il modo di ‘vedere’ le cellule staminali. Un tempo si pensava che potessero solo sostituire le cellule danneggiate. Invece noi capimmo che in parte è così, e che la loro azione può essere determinata anche dalle sostanze che rilasciano quando sono ancora allo stadio di staminalità. Oggi si sta addirittura pensando di usare il secretoma delle staminali (cioè la componente che secernono) al posto delle cellule in sé, per rendere la procedura più semplice.

In generale a che punto è la ricerca sulle cellule staminali per la sclerosi multipla progressiva?

Ci sono tante terapie cellulari a base di staminali in fase sperimentale, ma nessuna è stata approvata. Il panorama è vario, ma l’Italia è all’avanguardia, noi siamo i padri di questa tecnologia. Giovanni Luigi Mancardi del CEBR dell’Università di Genova da molto tempo si sta occupando delle cellule staminali ematopoietiche, cioè il famoso trapianto autologo di midollo osseo. Si usa ormai in modo anche routinario nelle forme aggressive della malattia che non sono responsive ad altri trattamenti. È una sorta di immunosoppressione all’ennesima potenza. Antonio Uccelli, sempre al CERB di Genova si occupa invece delle cellule staminali mesenchimali, anche del midollo osseo e ha da poco concluso uno studio di Fase I/II, che ha valutato non solo la sicurezza ma anche l’efficacia dell’approccio. Si è trattato di uno studio multicentrico che ha coinvolto circa 150 pazienti in tutto il mondo. Anche in questo caso le cellule vengono usate in modo immunoregolatorio. Inoltre, derivando tali cellule dallo stesso paziente, non devono essere coltivate per mesi, per cui è un approccio con meno problematiche rispetto al nostro. Noi invece usiamo le cellule staminali neurali del cervello che provengono dai feti abortiti, non tanto per eliminare la risposta del sistema immunitario anomalo, che causa il danno, ma per provare a recuperare il danno già in parte causato.

C’è un approccio che è più promettente di un altro?

Non lo sappiamo. Con il professor Uccelli ci confrontiamo spesso per capire le differenze, anche perché il nostro obiettivo è avere a disposizione più di una terapia cellulare, che abbia effetti diversi. Perché la malattia è bizzarra e prevede varie fasi. Avere più strumenti da offrire alle persone affette da sclerosi multipla è un bene. Perché in una fase può essere più indicata un effetto antiinfiammatorio, in altre uno rigenerativo. Non è escluso che un giorno si possano usare entrambe le sorgenti cellulari nello stesso paziente, perché hanno punti di attacco diversi rispetto ai meccanismi di malattia. L’armamentario della terapia cellulare per la sclerosi multipla progressiva sta diventando consistente. Ma siamo ancora in una fase in cui le cellule staminali rappresentano un’opportunità più che una certezza. A parte il trapianto di midollo, che è diventato una reale possibilità da offrire al paziente, anche perché ha dietro tanti anni di esperienza e non prevede la manipolazione estensiva delle cellule, che è il vero problema dal punto di vista pratico. Per gli altri due approcci dovremmo ancora aspettare per capire se potranno diventare una terapia per i pazienti.

Quali sono i rischi?

Accelerare i tempi sulla sperimentazione clinica potrebbe anche portare a effetti collaterali peggiori della malattia stessa. Da una parte c’è il rischio di sviluppare tumori, perché quando le cellule sono manipolate in vitro per essere espanse – cioè quando da poche cellule si deve arrivare a un miliardo di cellule per avere la dose giusta da somministrare – vengono stimolate artificialmente a dividersi molto velocemente, ma tale velocità ci fa correre il rischio di trasformarle in cellule tumorali, appunto cellule che proliferano indefinitamente. Il secondo rischio è che le cellule, essendo prelevate da un tessuto umano, possano anche portare con sé una serie di infezioni magari asintomatiche, contro cui il soggetto non ha ancora immunità. I tempi lunghi che servono per sviluppare una terapia nuova hanno lo scopo precipuo di proteggere le persone malate e dare loro un prodotto medicale sicuro.

Per la sclerosi multipla recidivante-remittente la situazione invece è diversa.

Per questa forma della malattia abbiamo già tanti farmaci disponibili, che hanno dato buoni risultati. Ho iniziato ad occuparmi di sclerosi multipla alla fine degli anni ’80, primi anni ’90 e adesso pensare di poter offrire ai nostri pazienti 10-15 terapie efficaci è per me un traguardo straordinario. La ricerca ha già dimostrato, per questa forma di malattia, di essere efficace e poter sviluppare strumenti per aiutare i malati. Lo sforzo che stiamo facendo per la forma progressiva ora è proprio questo. Perché rimane una malattia orfana con un solo farmaco approvato. Mi piacerebbe molto che lo stesso percorso che si è compiuto nella forma ricorrente-remittente si ripetesse anche nella progressiva. Vorrebbe dire che nel giro di dieci anni avremo delle armi efficaci a disposizione. Speriamo anche le cellule staminali.

 

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