Cervello

Un recente studio utilizza la malattia di Huntington come paradigma di riferimento per delineare le sfide che la medicina rigenerativa deve ancora affrontare in ambito neurologico 

Negli ultimi dieci anni la medicina rigenerativa ha fatto passi da gigante e con l’entrata in campo delle terapie cellulari il traguardo dell’applicazione clinica e del trattamento delle condizioni neurodegenerative appare sempre più concreto. Tuttavia, ci sono alcuni ostacoli che rendono la traslazione clinica della terapia cellulare ancora lontana. Queste difficoltà sono state sapientemente tratteggiate in uno studio pubblicato recentemente su Brain: utilizzando la malattia di Huntington come modello, gli autori delineano quali sfide dovrà affrontare nei prossimi decenni la medicina rigenerativa e quali potrebbero essere le strategie vincenti.

LA MALATTIA DI HUNTINGTON COME PARADIGMA DI STUDIO

Il gruppo di ricercatori, guidato da Anne E. Rosser del Neuroscience and Mental Health Research Institute dell’Università di Cardiff (Gran Bretagna), ha utilizzato la malattia di Huntington come esempio specifico a partire dal quale stabilire i principi per una traslazione clinica sicura ed efficace della terapia cellulare.

L’Huntington è una malattia neurodegenerativa del sistema nervoso centrale, caratterizzata da movimenti coreici (contrazioni involontarie e spesso aritmiche delle dita, dei piedi, del viso o del tronco, chiamati ‘corea’ - dal termine greco che significa ‘danza’), disturbi psichiatrici, anomalie del comportamento e demenza. Tuttavia, la caratteristica che ha fatto propendere i ricercatori per la scelta di questa patologia come modello di studio risiede nel suo essere una patologia monogenica, ovvero causata dalla mutazione di un singolo gene. 

In particolare, la malattia di Huntington è dovuta all’espansione (36 ripetizioni o più) della ripetizione CAG (citosina – adenina – guanina) sul braccio corto del cromosoma 4 nel gene dell’huntingtina (HTT). La disponibilità di un test genetico diagnostico efficace e affidabile permette di identificare gli individui portatori della mutazione nelle fasi presintomatiche. Questa possibile anticipazione è un’arma estremamente potente per gli studi clinici che cercano di valutare il decorso della patologia e che mirano a trovare una terapia in grado di alterarne la naturale progressione.

Questo, unito al fatto che la malattia di Huntington presenta i principali sintomi e segni fisiopatologici caratteristici di quasi tutte le malattie neurodegenerative multigeniche e multifattoriali più diffuse (malattia di Parkinson, malattia di Alzheimer, ecc.) e alla disponibilità di numerosi modelli cellulari e animali, la rende un ottimo candidato per testare, ottimizzare e portare in clinica le terapie cellulari sperimentali.

RICERCA TRASLAZIONALE

Nonostante la scoperta del gene e del tipo di mutazione risalga al 1993, per la malattia di Huntington non esiste ancora una terapia specifica. La gestione di questa patologia, così come quella di molti altri disturbi neurodegenerativi, è molto complessa e richiede un approccio multidisciplinare che comprenda, oltre al neurologo e allo psichiatra, la presenza di altre figure professionali come il nutrizionista, il fisioterapista, il logopedista e lo psicologo.

Anche l’ambito della ricerca richiede uno sforzo in più: la capacità di creare un canale diretto e bidirezionale tra due contesti che spesso dialogano con difficoltà, la ricerca di base e la pratica clinica. Ed è questo l’obiettivo del gruppo di ricerca britannico: trasformare in attività clinica i risultati della ricerca di base, e non solo. Il processo, infatti, è bidirezionale: la pratica clinica non è solo il punto di arrivo ma anche, e soprattutto, uno step di verifica e di ripartenza. I feedback ricevuti sono fondamentali per ripercorrere a ritroso il percorso fatto e ritarare gli strumenti e i metodi utilizzati. Un approccio che ha permesso ai ricercatori di evidenziare quali sfide dovrà affrontare nei prossimi decenni la medicina rigenerativa per i disturbi che riguardano il sistema nervoso centrale (SNC) e quali potrebbero essere le strategie vincenti.

LE SFIDE

Nello studio pubblicato su Brain, gli autori delineano in maniera molto puntuale quali sono le difficoltà per l’applicazione clinica di un’eventuale terapia cellulare nel campo dei disturbi neurodegenerativi, partendo dalla malattia di Huntington, e suggeriscono potenziali strategie per affrontarle:

- Definizione di principi generali che possano guidare la transizione dalla ricerca preclinica alla traduzione clinica;
- Produzione e scale-up delle culture cellulari, caratterizzazione, controllo qualità e validazione del prodotto cellulare;
- Uso di modelli animali di grandi dimensioni;
- Superamento della barriera ematoencefalica;
- Progettazione pratica di sperimentazioni cliniche;
- Sviluppo di un quadro per la selezione dei pazienti e follow-up;
- Gestione post-trapianto per massimizzare la sopravvivenza cellulare, eventuale integrazione successiva e trattamenti di immunosoppressione.

BENCH TO BEDSIDE

Come emerge chiaramente anche da questo studio, il passaggio “dal laboratorio al letto del paziente” (from bench to bedside) è ancora ostico e i tempi sono spesso estremamente lunghi, nonostante l'urgenza delle esigenze sanitarie nel campo delle malattie neurodegenerative, la maggior parte delle quali è tutt’ora incurabile. Un approccio traslazionale, nella ricerca così come nella clinica, potrebbe aiutare ad accelerare il processo, rendendo la medicina rigenerativa una speranza concreta per molti pazienti.

Una gamma molto eterogenea di condizioni neurodegenerative può beneficiare della terapia cellulare. Quest’ultima, infatti, è efficace anche nei casi in cui l’eziopatogenesi non sia ancora del tutto chiara, purché sia stata definita e caratterizzata l’anatomia e la distribuzione della perdita neuronale e gliale. Proprio per la duttilità e l’adattabilità di questo approccio è essenziale cercare di accelerare il percorso verso le sperimentazioni cliniche, intervenendo sulle singole problematiche evidenziate in modo mirato ed efficiente, ma senza perdere di vista il contesto generale in cui si opera.

Come si evince da questo studio, infatti, perché tutto ciò ‘funzioni’ davvero e quel dialogo tra ricerca di base e pratica clinica sia realmente virtuoso, dobbiamo chiamare in causa tre termini complessi più volte ripetuti all’interno dell’articolo: interdisciplinarità, collaborazione, bidirezionalità.

Con il contributo incondizionato di

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