CRISPR per curare le malattie in utero. Possibile?

La tecnica potrebbe essere risolutiva per alcune malattie genetiche rare

Un gruppo di ricercatori del Children’s Hospital of Philadelphia (CHOP) e della Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania guidato dal dott. Avery C. Rossidis e dal dott. William H. Peranteau del CHOP ha pubblicato un articolo sulla rivista scientifica Nature Medicine  nel quale viene descritta nei dettagli la procedura di correzione del DNA di alcuni feti di topo usando uno specifico correttore (BE3, Base Editor 3) per trattare una rara e letale affezione genetica, la tirosinemia ereditaria di tipo 1 (HT1). 

Le sperimentazioni scientifiche condotte con serietà procedono per gradi, gli scienziati comunicano le proprie scoperte con umiltà. “C’è ancora molto lavoro da fare sui modelli animali prima di poter anche solo pensare di applicare questa tecnica sull’uomo in fase clinica” – afferma il dott. Peranteau, tra i firmatari dello studio – “Anche se sono convinto che l’editing genetico a livello fetale potrà essere impiegato un giorno per curare malattie genetiche per le quali non esistono opzioni terapeutiche e i cui tassi di mortalità rimangono elevati”. Una dichiarazione che da una parte apre alla speranza e, dall’altra invita alla prudenza. Tuttavia, per comprendere nel dettaglio il lavoro degli scienziati americani è opportuno partire dalla malattia.

La tirosinemia ereditaria di tipo 1 è una patologia che solo negli Stati Uniti colpisce un bambino ogni 100.00 nati ed è originata da mutazioni a danno del gene che codifica per l’enzima fumaril acetato idroliasi (FAH), in assenza del quale i livelli di tirosina rimangono estremamente elevati. Nella forma acuta questa malattia comporta, tra i vari sintomi, anche epatomegalia, edema, ascite e una forte predisposizione alle emorragie che la rendono fatale se non si interviene entro il primo anno di vita. La terapia prevede la somministrazione del farmaco nitisinone e l’avvio di una dieta a basso contenuto proteico per ridurre i livelli di tirosina, fenilalanina e metionina ma, anche in questo caso, il rischio che alcuni individui sviluppino patologie epatiche se non addirittura epatocarcinomi rimane elevato. Esiste la possibilità di effettuare uno screening a livello molecolare all’interno di famiglie nelle quali sia nota la mutazione o di eseguire una diagnosi prenatale con il dosaggio di metaboliti come il fumaril acetoacetasi negli amniociti o del succinilacetone nel fluido amniotico ma purtroppo non è possibile intervenire in maniera curativa: si può cercare di far fare fronte alla tirosinemia 1 solamente in maniera tempestiva, iniziando da subito la terapia farmacologica e la dieta.

Lavorando su un modello murino della malattia Rossidis e colleghi hanno testato l’efficacia della terapia genica direttamente nel grembo materno, adoperandosi per cancellare la mutazione e curare la malattia prima che essa possa manifestarsi. Si tratta di un approccio delicato che offre alcuni vantaggi. Innanzitutto il feto si presenta ancora immaturo dal punto di vista immunologico, per cui in assenza di un sistema immunitario completamente formato ed efficiente l’eventualità che si scateni una risposta immunitaria in seguito all’inoculzione del complesso molecolare usato per la correzione – e veicolato proprio tramite un virus adenoassociato (AAV) – rimane bassa. Anche il ridotto rapporto peso-volume del feto implica una più alta efficienza d’azione del composto. Tuttavia, questa tecnica non è del tutto esente da rischi, correlati al probabile tasso di correzioni fuori bersaglio. Infine, non bisogna infine dimenticare che va tutelata non solo la salute del nascituro ma anche quella della madre. Per tale ragione, come chiariscono gli stessi ricercatori, la strada che conduce alla sperimentazione sull’uomo è ancora lunga. Quello che è stato realizzato è uno studio di fattibilità che aveva l’obiettivo di capire se in un futuro – non troppo lontano ci si augura – queste tecniche possano essere usate per il trattamento di patologie gravi fin dall’inizio della gravidanza.

Cerchiamo ora di capire nello specifico che cosa è stato fatto nei laboratori del CHOP e dell’Università della Pennsylvania. L’obiettivo dei ricercatori è stato quello di usare il correttore BE3 per modificare gli epatociti del feto, correggendo la mutazione che innesca la malattia e proteggendo il fegato, organo particolarmente colpito dalla tirosinemia di tipo 1. BE3 si può considerare l’evoluzione dell’ormai celebre macchina molecolare CRISPR/Cas9 dal momento che permette di cambiare singole basi (ad esmepio, una C diventa una T o una G diventa una A) senza effettuare tagli nella doppia elica come fa CRISPR/Cas9. Siamo nel campo del base editing. Tuttavia, il complesso BE3-SpCas9 (dove Sp sta per Streptococcus pyogenes) è piuttosto grande e può essere veicolato da specifici vettori adenoassociati, cosa che ha richiesto estese verifiche di tossicità da parte degli scienziati che, alla fine hanno selezionato gli individui, rimosso il feto dal sacco amniotico e iniettato il complesso direttamente nella vena vitellina. Era, infatti, essenziale che il correttore raggiungesse specificamente le cellule epatiche senza disperdersi in altri siti aspecifici. A quel punto il feto è stato riposizionato nell’utero e la gravidanza è stata condotta al termine. La sperimentazione si è rivelata una mirabile combinazione di chirurgia fetale e applicazione di procedure di ricerca, con l’utilizzo di un complesso molecolare evoluto e preciso, grazie al quale, è stato possibile osservare una robusta trasfezione degli epatociti sino dal primo giorno dopo l’inoculo. A tre mesi di distanza la quantità di cellule epatiche stabili era ancora buona a testimonianza della riuscita del protocollo.

Naturalmente non è stato facile raggiungere questo risultato: sono stati necessari anni di studio, di ricerca del vettore adeguato e di affinamento delle capacità di correzione del complesso BE3-SpCas9. Prima di raggiungere questa fase, i ricercatori avevano impiegato CRISPR/Cas9 per modificare il gene PCSK9 che regola il livello del colesterolo nel circolo sanguigno nei topolini non ancora nati. Alla nascita questi individui avevano un livello di colesterolo bassissimo che si è manteuto stabile nel tempo senza che fossero presenti effetti off-target. L’esito di questa prima fase di sperimentazione ha dato fiducia ai membri dell’equipe di Rossidis nella prosecuzione del loro lavoro sulla tirosinemia di tipo 1 che si è concluso con un aumento della sopravvivenza dei topolini e un miglioramento della funzionalità delle loro cellule epatiche, confermata anche in sede istologica.

Gli scienziati americani non sono stati i primi a battere questa via, tentando la correzione – e quindi la cura – della malattia in fase prenatale perché, solo pochi mesi fa, in un altro studio apparso sulla rivista Nature Medicine si dimostrava la possibilità di ricorrere alla terapia genica per trattare la malattia di Gaucher , una malattia che provoca l’accumulo di lipidi a livello del sistema nervoso per cui non esiste un trattamento specifico. Anche in questo caso è possibile avere una diagnosi con l’amniocentesi ma i soli tentativi di cura fino ad oggi messi in atto hanno previsto la somministrazione dell’enzima glucocerebrosidasi (GBA) che scompone le catene lipidiche e non hanno semnpre dato esiti soddisfacenti vista la difficoltà di superare la barriera emato-encefalica. Un tipo di intervento precoce, a livello del feto, permetterebbe di ridurre i terribili danni cerebrali provocati dalla malattia.

“La terapia genica e quella di sostituzione enzimatica a livello fetale potrebbero costituire la nuova frontiera della medicina e proiettarci molto avanti nella cura di malattie come questa” – afferma Tippi MacKenzie, specialista dell’Università della California. Oggi, grazie all’amniocentesi e ai test prenatali non invasivi eseguibili su prelievo di sangue possiamo individuare con largo anticipo malattie gravi e pericolose. Domani, grazie ai protocolli di editing genetico, speriamo di poterle definitivamente sconfiggere.

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