Uno studio preclinico, condotto da un team di ricerca statunitense, sta valutando la possibilità di sviluppare una futura terapia efficace e mirata
Una malattia del metabolismo può generare squilibri in diversi distretti dell’organismo causando disfunzioni in più organi. Diagnosticare tali condizioni per tempo serve a poter avviare subito una corretta presa in carico e iniziare una terapia, perlomeno nei casi in cui sia disponibile. Nel caso dell’ipofosfatasia esiste, ed è in commercio da alcuni anni, la terapia di sostituzione enzimatica che richiede da tre a sei somministrazioni alla settimana, per tutta la vita, con un importante impatto sull’aderenza terapeutica. Perciò la prospettiva di una terapia genica che, con un’unica somministrazione, potrebbe liberare i malati dai sintomi e dal vincolo di un trattamento cronico sta suscitando grande interesse. I primi dati preclinici a favore di questa possibilità arrivano da uno studio pubblicato sul Journal of Bone and Mineral Research.
IPOFOSFATASIA: UNA PATOLOGIA DELL’OSSO (MA NON SOLO)
Le caratteristiche distintive di questa malattia metabolica sono i difetti di mineralizzazione ossea che culminano con una serie di deformità scheletriche di tipo rachitico, evidenti dall’età infantile (la forma più diffusa della patologia) oppure che compaiono in età adulta (in questo caso si instaura un quadro di osteomalacia). Si tratta dunque di una malattia dal fenotipo estremamente variabile, di cui sono note quattro forme: quella congenita letale, quella infantile (ha esordio prima dei 6 mesi vita), quella dell’adulto e la pseudoipofosfatasia, forma quest’ultima in cui i livelli di fosfatasi alcalina (ALP) appaiono normali a dispetto della presenza di evidenti manifestazioni sintomatiche tipiche dell’ipofosfatasia. Infatti, la diminuzione dei livelli di ALP nel sangue, le alterazioni scheletriche di grado variabile e l’escrezione di fosfoetanolamina nelle urine costituiscono un trittico decisivo per la diagnosi della malattia che ha origine ereditaria (il gene responsabile è ALP1 che regola l’espressone della fosfatasi alcalina).
Il trattamento della sintomatologia ossea, in quanti sono affetti da ipofosfatasia ad esordio pediatrico, consiste nella somministrazione dell’enzima ricombinante asfotase alfa che promuove la mineralizzazione dello scheletro. Purtroppo questa terapia - alla cui messa a punto hanno contribuito gli studi del prof. José Luis Millán, che ha guidato anche il recente studio sulla terapia genica - consiste in ripetute somministrazioni sottocutanee (da tre a sei volte alla settimana, a seconda della gravità del quadro) clinico. “È stato un enorme successo e si è rivelato un trattamento salvavita”, ha dichiarato lo stesso Millán in un’intervista pubblicata su Eurekalert!. “Tuttavia, si tratta di un trattamento parecchio invasivo e alcuni pazienti che sviluppano reazioni alle frequenti iniezioni finiscono con interromperlo”. Ciò ha spinto i ricercatori californiani a concentrarsi su altre vie per trattare la malattia.
I TEST PRECLINICI SU UNA TERAPIA GENICA
Nell’articolo pubblicato su Journal of Bone and Mineral Research Millán - del Programma di Genetica Umana alla Sanford Burnham Prebys Medical Discovery Institute di La Jolla - e i suoi collaboratori descrivono i vantaggi di AAV8-TNAP-D10, una terapia genica sperimentale che si avvale di un vettore virale opportunamente modificato (AAV8) per fornire alle cellule una copia corretta del gene della fosfatasi alcalina tessuto-non specifica (TNAP) che manca nei pazienti con ipofosfatasia. L’obiettivo è di arrestare i processi di deformazione delle ossa e la perdita precoce dei denti, sintomo ricorrente sia nella forma infantile che in quella dell’adulto (dove la dentatura è più fragile e i denti permanenti tendono a cadere).
A onor del vero non si tratta della prima pubblicazione su un approccio di terapia genica per l’ipofosfatasia, dal momento che proprio Millán e il suo team avevano già dimostrato l’efficacia e la sicurezza del loro approccio in modelli murini delle forme infantile e adulta di malattia: mediante una singola iniezione del composto AAV8-TNAP-D10 era stato possibile osservare una efficiente correzione dei difetti scheletrici con diminuzione del rischio di fratture. Il nuovo studio si è, perciò, rivolto alla valutazione dei differenti dosaggi della terapia genica, confrontando gli effetti di una singola iniezione intramuscolare di AAV8-TNAP-D10 CON uno schema a dosi crescenti in modelli della malattia ad esordio precoce e tardivo. L’obiettivo era quello di capire quale dose producesse l’efficacia maggiore senza suscitare effetti collaterali, fra cui la comparsa di calcificazioni ectopiche (cioè la deposizione di cristalli di calcio nei tessuti molli).
RISULTATI INATTESI DA CUI FAR PARTIRE NUOVI STUDI
Un primo sorprendente dato emerso ha riguardato gli esemplari di topo che hanno fatto da modello per l’ipofosfatasi ad insorgenza tardiva: la terapia genica si è dimostrata maggiormente efficacia nei topi di sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile. Inoltre, in questi esemplari i miglioramenti nelle ossa e a livello dei denti sono stati ottenuti con una dose inferiore di trattamento. Sebbene in tutti gli esemplari trattati sia stato riscontrato un aumento di ALP e una diminuzione conseguente di pirofosfato inorganico (PPi) - che insieme alla fosoetanolamina costituisce uno dei substrati che si accumulano nei tessuti - è stato visto che i maschi ad esordio tardivo rispondevano meno bene delle femmine e le successive analisi di immunoistochimica hanno confermato le differenze tra i due sessi evidenziando un maggior attività enzimatica a livello dei muscoli e delle ossa nel caso delle femmine, e del fegato nel caso dei maschi.
In un commento alla ricerca, pubblicato sulla stessa rivista, Wolfgang Högler, titolare della cattedra di Pediatria dell’Università Johannes Keplerdi Linz (Austria), e Lothar Seefried, capo del Dipartimento di Osteologia e Ricerca Clinica all’Università Julius-Maximilians di Würzburg (Germania), pur osservando la comparsa di calcificazioni ectopiche inquadrabili come possibili crepe nella sicurezza della terapia genica, alle dosi di trattamento più elevate e in entrambi i modelli murini, sottolineano la necessità di proseguire gli studi, in modo particolare nell’ipofosfatasia ad esordio precoce che rappresenta la principale sfida per le nuove forme di trattamento. Essi suggeriscono di considerare anche futuri schemi terapeutici che, in combinazione alla terapia genica, prevedano il ricorso a farmaci per ridurre lo stress del reticolo endoplasmatico, riportando sotto i riflettori il tema dell’inserimento delle terapie geniche all’interno di programmi terapeutici che già comprendono varie opzioni di cura.
UN SETTORE DELLA RICERCA DA FAR CRESCERE
Nel caso dell’ipofosfatasia per quanto la terapia genica rimanga un orizzonte a cui aspirare, non deve esser sminuito il ruolo della terapia di sostituzione enzimatica, mentre sul fronte delle terapie a mRNA si potrebbe contare su oligonucleotidi antisenso, siRNA e microRNA anche se - fanno notare gli stessi autori - l’industria farmaceutica faticherà ad impegnare troppe risorse su questo fronte senza prima il riscontro di mutazioni mirate intorno a cui sviluppare le potenziali molecole candidate. Altro discorso riguarda le tecniche di editing del genoma, fra cui il sistema CRISPR, che potrebbero costruire un’alternativa concreta per apportare la correzione genetica direttamente sul DNA del paziente.
Mentre si disserta di tutto ciò e si esaminano i dati delle ricerche precliniche, Millán e i suoi collaboratori stanno proseguendo le loro indagini, meditando sui dati ottenuti per apportare miglioramenti alla terapia sperimentale e allargare così il ventaglio di soluzioni destinate sia ai difetti di mineralizzazione dello scheletro che agli altri organi interessati dall’ipofosfatasia. Un passaggio cruciale per raggiungere questo traguardo sarà la finalizzazione di un rapporto di collaborazione con un’azienda di biotecnologie a cui affidare lo sviluppo clinico di AAV8-TNAP-D10, nella speranza che un giorno possa diventare una concreta opportunità di cura per i pazienti.