Tra le diverse terapie avanzate e di precisione, la terapia genica è una delle prime ad essere state ideate e ha l’obiettivo di trattare una patologia mirando direttamente alle sue basi genetiche. Il concetto base di questa strategia terapeutica è di fornire all’organismo una copia corretta del gene difettoso o un altro gene che possa compensarne il malfunzionamento nelle cellule colpite dalla malattia.
Esistono due principali modalità di somministrazione per la terapia genica:
Per veicolare il “gene terapeutico” all’interno delle cellule o dell’organismo si utilizzano generalmente dei vettori virali: ad oggi i più utilizzati sono i vettori virali adeno-associati (AAV).
Il potenziale della terapia genica è di enorme portata poiché potrebbe rappresentare una cura per tutta una serie di gravissime malattie per cui oggi non esistono valide opzioni terapeutiche o che richiedono terapie croniche. Ad oggi la ricerca nell’ambito della terapia genica spazia dalle malattie genetiche, in particolar modo quelle rare, al cancro, passando per le malattie autoimmuni e le malattie infettive.
Il concetto di terapia genica nasce alla fine degli anni ‘80 con le nuove tecniche del DNA ricombinante che permettono di costruire pezzi di DNA contenenti sequenze geniche desiderate. Ma è solo negli ultimi anni, con il sequenziamento del genoma e l’avanzare delle biotecnologie, che si sono cominciati a vedere i primi importanti risultati nelle sperimentazioni sull’uomo e le prime terapie geniche autorizzate dall’European Medicines Agency (EMA) in Europa e della Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti. In questo ambito l’Italia ha una posizione di eccellenza a livello internazionale: sono diverse le terapie avanzate frutto di ricerche all'avanguardia "made in Italy".
Pensare ad una terapia avanzata, produrla, svilupparla e introdurla sul mercato è un’ardua impresa. Tuttavia ritenere che la commercializzazione costituisca il traguardo finale rappresenta un errore perché l’ultimo miglio, quello più faticoso, consiste nel passare alla pratica clinica: portare la terapia al letto del paziente. A spiegare per quali ragioni quello che, in apparenza, sembra un passaggio scontato è, invece, un serio ostacolo da superare è la prof.ssa Francesca Simonelli, Direttrice della Clinica Oculistica dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” di Napoli, la quale ha recentemente pubblicato - insieme a un gruppo di esperti - sulla rivista AboutOpen Ophthalmology il primo PDTA per l’erogazione della terapia genica per una specifica forma di distrofia retinica ereditaria.
“Cos’è un pancreas, comunque? Non so nemmeno a cosa serva, oltre a darti il cancro”. Questa frase, pronunciata dal personaggio di Tommy Lee Jones nel film “Space Cowboys”, riassume molto bene da un lato la scarsa consapevolezza delle funzioni fisiologiche di un organo vitale, dall’altro la chiarezza con cui una diagnosi di tumore pancreatico si associa a scarse prospettive di sopravvivenza a lungo termine. Infatti, le attuali opzioni curative sono assai limitate ma un’interessante review apparsa a febbraio sulla rivista Human Gene Therapy descrive diversi filoni di ricerca nel campo delle terapie avanzate che da qui ai prossimi anni potrebbero (auspicabilmente) cambiare la situazione.
È la malattia neurologica a carattere ereditario più frequente al mondo e si presenta in modo alquanto variabile, rendendo difficoltoso il lavoro del neurologo che deve riconoscerla e diagnosticarla. Si tratta della malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT), la cui prima descrizione è stata riportata nell’Ottocento da un insigne trio di medici (su tutti il prof. Jean-Martin Charcot, padre della moderna neurologia) e che, si stima, colpisca oltre 3 milioni di persone nel mondo (l’incidenza è di una persona affetta ogni 2500 nuovi nati). Purtroppo, ad oggi non esiste una terapia risolutiva ma sono in corso diversi studi preclinici basati su differenti strategie di terapia genica che potrebbero cambiare le cose.
La perdita della vista non si limita a privare il malato della possibilità di crearsi un’immagine del mondo che lo circonda ma cancella anche la sua stessa rappresentazione agli altri: in pratica rende invisibile il mondo e anche la persona non vedente. Si tratta di una sgradevole sensazione con cui il paziente deve confrontarsi ma che serve a comprendere l’impatto che può avere sui malati una terapia genica come lenadogene nolparvovec, destinata a quanti abbiano perso la vista a causa della neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON) causata da mutazioni nel gene ND4. Al 49esimo incontro annuale della North American Neuro-Ophthalmology Society (NANOS) - svoltosi a marzo in Florida - sono stati presentati nuovi dati riguardo la sicurezza e l’efficacia della terapia genica sperimentale a tre dalla somministrazione in pazienti inclusi nello studio clinico di Fase III REFLECT.
Uno dei nodi più difficili da sbrogliare riguardanti le terapie innovative, soprattutto nel caso delle terapie avanzate, riguarda la conferma degli effetti sul lungo periodo. Infatti, per quei trattamenti che si somministrano una sola volta nella vita (cosiddetti “one-shot”) l’interrogativo principale è su quanto a lungo dureranno i benefici. Per alcuni anni? Per tutta la vita? La risposta a queste domande si trova nell’analisi dei dati di follow-up che, nel caso dell’atrofia muscolare spinale (SMA), si stanno rivelando estremamente positivi. Durante la conferenza scientifica della Muscular Dystrophy Association (MDA), che si è tenuta dal 19 al 22 marzo a Dallas (Stati Uniti), sono stati presentati i dati relativi a lungo termine della terapia genica onasemnogene abeparvovec e della terapia su RNA risdiplam, due terapie che hanno cambiato il percorso di cura di tanti bambini con la SMA.
A febbraio sono stati pubblicati sulla rivista The New England Journal of Medicine i risultati di uno studio osservazionale che ha coinvolto 134 persone affette da emofilia A grave a cui era stata precedentemente somministrata valoctocogene roxaparvovec (nome commerciale Roctavian). L’obiettivo consisteva nella valutazione del profilo di sicurezza e di efficacia della terapia genica approvata lo scorso anno in Europa e, più nello specifico, la variazione nel numero di eventi emorragici a distanza di due anni dal trattamento. I risultati dimostrano la durata dell’attività del Fattore VIII prodotto grazie alla terapia e una diminuzione degli episodi di sanguinamento, che possono essere paragonati a quelli che si verificano nei casi lievi e moderati di emofilia A.
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