Aggirare il sistema immunitario, è questo lo stratagemma ideato dal team di ricercatori dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica di Milano.
La terapia genica per l’emofilia non è una novità: da anni si studiano approcci innovativi per trovare un trattamento efficace e risolutivo per questa patologia. Il gruppo di ricerca diretto da Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) e Professore presso l’Università Vita Salute San Raffaele a Milano, ha trovato una soluzione alternativa per ottimizzare il trasporto del “gene terapeutico” nelle cellule di interesse e ottenere risultati migliori. Lo studio, che vede la collaborazione di altri partner, è stato pubblicato a fine maggio sulla rivista scientifica Science Translational Medicine.
L’emofilia è una patologia che compromette la capacità dell’organismo di coagulare il sangue, con conseguenti emorragie che avvengono, ad esempio, nelle articolazioni, nei muscoli e nei tessuti molli. Il trattamento attualmente disponibile consiste nella terapia sostitutiva, ovvero nella somministrazione del fattore di coagulazione mancante (fattore VIII nell’emofilia A e fattore IX nella forma B), in caso di necessità o come trattamento preventivo. In passato i fattori di coagulazione erano estratti dal sangue di donatori, ma l’ingegneria genetica ha fornito agli scienziati gli strumenti per la produzione in laboratorio, eliminando i rischi associati ai donatori, come ad esempio la diffusione di infezioni. La complicanza principale della terapia sostitutiva è la comparsa di anticorpi diretti a contrastare l’azione dei fattori di coagulazione, che ne bloccano l’effetto e rendono poco efficace il trattamento. Proprio per questo motivo, la terapia genica potrebbe offrire una soluzione vantaggiosa, e a lungo termine, dato che la correzione stabile del gene eliminerebbe la necessità della terapia sostitutiva.
Gli studi clinici per lo sviluppo di strategie di terapia genica per l’emofilia si sono spesso basati, come per altre patologie, sull’utilizzo di vettori virali adeno-associati (AAV): i risultati sono buoni e i vettori ben tollerati. Una singola somministrazione endovenosa di AAV con la copia funzionante del gene d’interesse ha dimostrato sicurezza ed efficacia nei pazienti. Purtroppo, molte persone nel corso della loro vita hanno già incontrato virus del tipo AAV sviluppando una risposta immunitaria e, di conseguenza, non possono essere sottoposti a questo tipo di trattamento o necessitano di soppressione immunitaria per permettere alla terapia di agire. Inoltre, gli AAV non integrano il proprio materiale genetico nelle cellule dell’organismo ospite, rendendo più difficile il mantenimento degli effetti nel tempo (le cellule che si dividono non mantengono la sequenza di DNA corretta).
Questo ha spinto gli scienziati a cercare una soluzione altrove ed è stata trovata nei vettori lentivirali (LV). I lentivirus, già conosciuti e usati in terapie geniche già approvate, sono in grado di integrarsi nel DNA della cellula ospite, vengono mantenuti quando la cellula si divide e garantiscono una correzione del “gene difettoso” a lungo termine. In questo caso, il virus utilizzato – modificato e reso innocuo, cioè non più in grado di dare origine a un’infezione, ma capace di trasportare il materiale genetico inserito al suo interno – è l’HIV. Essendo questo praticamente sconosciuto al sistema immunitario, umano rispetto ai più comuni AAV, non ci sono anticorpi largamente diffusi nella popolazione che possono contrastare la sua attività. I lentivirus tendono però ad essere eliminati dai globuli bianchi prima che possano consegnare il loro “carico” alle cellule epatiche, sede della produzione dei fattori di coagulazione, e della milza. Per ovviare il problema, i ricercatori del SR-Tiget hanno sviluppato dei LV che raggiungono un’espressione stabile del gene corretto a livello delle cellule del fegato e della milza, senza tossicità rilevabile. Per evitare la fagocitosi, cioè la capacità di alcune cellule di ingerire e distruggere ciò che viene riconosciuto come estraneo, sulla superficie esterna dei vettori è stata applicata una proteina, chiamata CD47. Quest’ultima permette ai vettori di evitare il riconoscimento e l’eliminazione da parte dei globuli bianchi, poiché la proteina CD47 è un regolatore di questo processo biologico. Senza questa modifica, una buona parte della terapia veniva eliminata dal sistema immunitario e, cosa non da sottovalutare, produceva infiammazione nell’organismo.
La sperimentazione preclinica è stata condotta su sei primati non umani e la terapia genica è stata somministrata per via endovenosa. I risultati sono promettenti: i vettori sono stati in grado di trasferire il materiale genetico alle cellule bersaglio senza segni evidenti di tossicità. Come previsto, i LV con la proteina CD47 sono più resistenti alla fagocitosi e meno sensibili al riconoscimento da parte del sistema immunitario. Saranno necessari altri test per confermare la validità e la sicurezza del trattamento, e per analizzare la quantità di farmaco ottimale, dato che abbassando le dosi di terapia genica si potranno ridurre ulteriormente gli effetti collaterali. Al momento, le sperimentazioni per la forma B sono in fase più avanzata, perché il gene per il fattore di coagulazione IX è più piccolo e più facilmente trasportabile, mentre quello per il fattore di coagulazione VIII ha dimensioni maggiori e necessita di soluzioni alternative.