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I dati relativi ai 43 pazienti trattati dal 2000 ad oggi confermano un rapporto favorevole tra rischi e benefici. Ora l’obiettivo è garantire la diagnosi precoce e l’accesso alle terapie avanzate

Uno studio pubblicato ieri su Nature Medicine, firmato da medici e ricercatori dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano, descrive i risultati a lungo termine della terapia genica per l’ADA-SCID, una immunodeficienza rara e molto grave. Approvata in Europa nel 2016, Strimvelis ha permesso di trattare 43 pazienti con ADA-SCID dal 2000 ad oggi, 22 nel contesto dello sviluppo clinico (con circa 15 anni di follow-up), 19 dopo la messa in commercio del farmaco e altri due pazienti hanno ricevuto la terapia genica con cellule CD34+ mobilizzate dal sangue periferico. Oggi la produzione e la distribuzione sono responsabilità di Fondazione Telethon, che ha salvato il farmaco dal ritiro dal mercato permettendone l’accesso a chi ne ha bisogno.

LA TERAPIA GENICA: QUANDO IL TRAPIANTO NON SI PUÒ FARE

Strimvelis è la prima terapia genica ex vivo approvata in Europa, ormai 8 anni fa, ed è un vanto della ricerca biomedica tricolore: infatti, è stata sviluppata da ricercatori italiani grazie alla collaborazione di Fondazione Telethon, Ospedale San Raffaele di Milano e l’azienda GlaxoSmithKline. Nel 2016, in seguito all’autorizzazione della Commissione Europea, è diventata disponibile per il trattamento di tutti i pazienti con diagnosi di ADA-SCID, una forma gravissima di immunodeficienza, e senza un donatore compatibile per il trapianto di cellule staminali ematopoietiche, che è la terapia d’elezione per questa malattia ma che risulta fattibile in una percentuale molto bassa dei casi. Altre opzioni per gestire la malattia sono la terapia enzimatica sostitutiva, gli antibiotici e le immunoglobuline, anche se  - senza un approccio risolutivo - raramente i bambini sopravvivono oltre i due anni. Si tratta di una malattia molto rara: l’incidenza annuale è stimata tra 1/375.000 e 1/660.000 di nati vivi (dati del 2018) che, in base ai dati sulle nascite in Europa, si traduce in 6-11 bambini con questa patologia ogni anno solo nei Paesi del Vecchio Continente. Numeri bassi, ma per i quali avere un’opzione di cura efficace si traduce in una vita salvata.

Si tratta di una terapia genica autologa, che viene somministrata in un unico trattamento (“one shot”) e che agisce direttamente sulla causa genetica della malattia, trasportando una copia corretta del gene ADA – mutato nei pazienti - all’interno delle cellule staminali del sangue grazie a un vettore virale. Le cellule vengono inizialmente prelevate dal paziente, poi modificate geneticamente in laboratorio e, infine, reinfuse nel sangue del paziente per rendere funzionante il sistema immunitario. L’ADA-SCID, infatti, è causata da un deficit nel funzionamento dell’enzima adenosina deaminasi, codificato appunto dal gene ADA, che causa un gravissimo malfunzionamento del sistema immunitario che diventa totalmente incapace di combattere le infezioni. Questo lascia i piccoli pazienti esposti ai patogeni: anche un banale raffreddore potrebbe mettere in pericolo la loro vita, motivo per cui devono vivere in un ambiente sterile e isolato per sopravvivere (da qui vengono chiamati “bambini bolla”). Rispristinare il corretto funzionamento dell’enzima adenosina deaminasi permette di riscrivere la storia clinica dei pazienti e delle loro famiglie.

I DATI DELLO STUDIO

I 43 pazienti, con una media di follow-up di 5 anni (con dati che vanno dai 2,4 anni ai 15,4 anni), risultano tutti vivi e con una sopravvivenza senza interventi di 2 anni, cioè senza necessità di terapia a lungo termine con sostituzione enzimatica o trapianto di cellule staminali ematopoietiche allogeniche. A dicembre 2022, 17 pazienti sui 22 trattati prima dell’approvazione alla commercializzazione hanno riportato 52 eventi avversi dopo il trattamento, di cui 30 di origine infettiva, tutti si sono risolti e nessuno è stato fatale. Nel gruppo trattato con la terapia già approvata, 14 pazienti su 19 hanno riportato 22 effetti avversi non fatali, di cui 14 di origine infettiva, e tutti si sono completamente risolti. Un unico paziente è andato incontro a shock ipovolemico (shock dovuto ad una diminuzione del volume del sangue in circolazione)in seguito al prelievo di midollo osseo pretrattamento. Un paziente ha sviluppato una leucemia delle cellule T correlata al trattamento quasi 5 anni dopo la terapia genica ed è attualmente in remissione e sotto monitoraggio. 

In generale, si è osservata una persistenza a lungo termine delle cellule corrette geneticamente, la ricostituzione immunitaria e la diminuzione dei tassi di infezione. In futuro, la coorte di pazienti sopravvissuti a lungo termine permetterà al gruppo di ricerca di studiare anche l’eventuale insorgenza di altre problematiche non immunologiche. Grazie a questi dati, l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha confermato un bilancio beneficio-rischio favorevole, tenendo conto dell'equilibrio tra il rischio intrinseco della malattia e le problematiche legate al trapianto di staminali ematopoietiche.

NON C’È SOLO LA SOMMINISTRAZIONE

Tutti i pazienti trattati continueranno ad essere monitorati fino a 15 anni dopo il trattamento, come parte delle misure post-autorizzative. I dati a lungo termine suggeriscono che il rapporto rischio-beneficio della terapia genica per la ADA-SCID rimane favorevole e giustifica la continuazione del monitoraggio a lungo termine della sicurezza.

“In questo lavoro descriviamo come anche dopo la commercializzazione la terapia genica per l’ADA-SCID continui a essere sicura ed efficace, come già dimostrato nella fase sperimentale iniziata nel 2000”, commenta Maddalena Migliavacca, immunologa pediatra e ricercatrice nell'Unità Operativa di Immunoematologia Pediatrica. “I pazienti sono tutti vivi e nella maggior parte dei casi non hanno avuto bisogno di ulteriori terapie curative dopo la terapia genica. La loro qualità di vita è migliorata sensibilmente, hanno potuto sottoporsi regolarmente alle vaccinazioni, andare a scuola e condurre finalmente una vita in comunità. Nei pochi casi - circa il 15% - in cui il trattamento non ha funzionato, siamo potuti intervenire con successo con il trapianto da donatore. Continueremo a seguire i nostri pazienti per almeno 15 anni dalla somministrazione della terapia per monitorare la sicurezza a lungo termine: questo ci permetterà di studiare anche aspetti ancora poco noti di questa malattia non legati all’immunità, come quelli neurologici e metabolici”.

L’IMPORTANZA DI UNA DIAGNOSI E INTERVENTO PRECOCE

Per valutare se l’età al momento del trattamento potesse influenzare l’esito della terapia genica, il gruppo di pazienti è stato suddiviso in due gruppi: nel primo il trattamento è stato effettuato prima dei due anni e mezzo, nel secondo gruppo dopo questa soglia d’età. I pazienti trattati prima hanno mostrato una tendenza a un maggiore attecchimento di cellule CD15 + e CD3 + modificate geneticamente e, anche se presentavano una linfopenia più profonda durante le prime fasi post-terapia, a lungo termine hanno raggiunto un livello di cellule immunitarie più elevate rispetto ai pazienti trattati successivamente. Questi dati, e altri riportati nello studio, confermano come una diagnosi precoce sia fondamentale per ottenere risultati migliori. Migliorare e velocizzare le procedure di screening della malattia è fondamentale per gestire al meglio la malattia e anticipare i trattamenti.

Attualmente in Italia né l’ADA-SCID né le altre immunodeficienze combinate gravi fanno parte del pannello nazionale di screening neonatale. Alcune regioni, però, hanno attivato dei progetti pilota: la prima è stata la Toscana, già nel 2011. Negli ultimi anni, come riportato sul quaderno per lo screening neonatale pubblicati dall’Osservatorio Malattie Rare, la Campania e la Liguria hanno condotto dei programmi di screening a scopo di ricerca, così come l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova e il centro screening di Palermo. Le ultime regioni ad aver introdotto lo screening sono state l’Abruzzo, la Puglia e la Lombardia. Nel mondo, invece, tra i Paesi che hanno introdotto lo screening per questa patologia ci sono Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Svezia, Irlanda, Israele, Brasile, India, Stati Uniti.

Come spiega Maria Pia Cicalese, immunologa pediatra e ricercatrice dell’Università Vita-Salute San Raffaele, “la risposta al trattamento è migliore quanto prima riusciamo a intervenire, perché si riduce l’arco di tempo in cui la malattia può danneggiare l’organismo. Grazie all’esperienza maturata in questi anni abbiamo migliorato il nostro approccio, i pazienti arrivano a sottoporsi alla terapia genica in condizioni migliori e questo ha un impatto anche sull’efficacia a lungo termine. Ecco perché è fondamentale che si diffonda quanto più possibile lo screening neonatale, un test che consente di identificare la malattia alla nascita e di intervenire prima che abbia determinato danni irreparabili. Purtroppo, però, siamo ancora lontani da un’applicazione di questo tipo di esame sull’intera popolazione”.

GARANTIRE L’ACCESSO E LA SOSTENIBILITÀ

La terapia genica pone diverse sfide in termini di rimborsabilità, di accesso al trattamento e di logistica per i centri di trattamento, di medici di riferimento e, infine, di logistiche organizzative e finanziarie di pazienti e caregiver. A causa della limitazione intrinseca a un prodotto “fresco”, dato che la produzione del farmaco si basa su cellule prelevate dal paziente, e la disponibilità di un singolo centro autorizzato alla somministrazione - l’Ospedale San Raffaele - i pazienti provenienti da altri Paesi dell'Unione Europea possono accedere al trattamento solo in seguito all’autorizzazione del sistema sanitario del Paese di provenienza. Queste procedure sono possibili grazie ai Regolamenti comunitari di sicurezza sociale. Tuttavia, solo circa la metà dei pazienti eleggibili per la terapia genica sono stati trattati con la terapia genica, per motivi diversi, tra cui proprio quello della sostenibilità.  

Quando il finanziamento non è stato concesso, è possibile che la percezione di costi elevati del farmaco, non soggetto a negoziazione locale, e la mancanza di chiarezza del processo di approvazione abbiano rappresentato un collo di bottiglia verso l'approvazione del rimborso da parte del sistema nazionale di riferimento. Come scritto nello studio, questo potrebbe essere un problema per l'accesso al trattamento nell'UE di altre terapie avanzate per malattie rare per i quali non sono disponibili centri di cura qualificati nell'UE. In questo caso, la necessità per le famiglie di trascorrere 4-6 mesi lontano da casa con risorse finanziarie e logistiche limitate, è stata affrontata con un programma di sostegno della Fondazione Telethon. L'uso di forme crioconservate potrebbe mitigare in parte queste limitazioni per altre terapie avanzate.

È indubbio che il costo della terapia sia elevato se confrontato con i farmaci tradizionali; tuttavia, l’impatto economico si ridimensiona se si considera che la terapia viene somministrata una sola volta, soprattutto se si fa il confronto con terapie croniche somministrate per tutta la vita. Di fronte a terapie che possono cambiare la storia naturale di malattie gravi come questa è fondamentale garantire l’accesso a tutti i pazienti che ne abbiano bisogno, per quanto rari siano”, commenta Alessandro Aiuti, vicedirettore dell’SR-Tiget, professore ordinario di Pediatria all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e membro del Comitato scientifico di Osservatorio Terapie Avanzate.

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