Nei modelli murini della patologia si stanno testando le terapie geniche del futuro. È soltanto l’inizio ma le premesse suscitano grande interesse
È la malattia neurologica a carattere ereditario più frequente al mondo e si presenta in modo alquanto variabile, rendendo difficoltoso il lavoro del neurologo che deve riconoscerla e diagnosticarla. Si tratta della malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT), la cui prima descrizione è stata riportata nell’Ottocento da un insigne trio di medici (su tutti il prof. Jean-Martin Charcot, padre della moderna neurologia) e che, si stima, colpisca oltre 3 milioni di persone nel mondo (l’incidenza è di una persona affetta ogni 2500 nuovi nati). Purtroppo, ad oggi non esiste una terapia risolutiva ma sono in corso diversi studi preclinici basati su differenti strategie di terapia genica che potrebbero cambiare le cose.
Come già accennato, la malattia di Charcot-Marie-Tooth ha un’origine genetica e, analogamente ad altre condizioni neurodegenerative, manifesta un’elevata eterogeneità che ha spinto i neurologi a classificarne le varie forme sulla base delle modalità di trasmissione. Sul sito dell’Associazione Italiana ACMT-Rete per la malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT) è riportato il catalogo di tutte le varianti che comprendono quelle a trasmissione autosomica dominante (CMT1 A e B e CMT2), recessiva (CMT4) oppure legata al cromosoma X (CMT X1).
Nel 2021, un gruppo di ricerca francese aveva pubblicato un articolo nel quale era descritto l’utilizzo di terapie su RNA, nello specifico dei cosiddetti small interference RNA (siRNA), quali possibili strategie per trattare certe forme dominanti di malattia. Nello stesso periodo, in diversi laboratori di ricerca si stava considerando la possibilità di sfruttare i vettori virali per introdurre geni terapeutici capaci di ridurre i sintomi neurologici della Charcot-Marie-Tooth legata al cromosoma X, e non solo…
LE STRATEGIE PER CMT X1
Quando la malattia riconosce una modalità di trasmissione legata al cromosoma X le mutazioni da cui origina sono quelle che interessano il gene GJB1, che codifica per la proteina connessina 32 (cx 32). Questa proteina contribuisce a formare dei canali - detti giunzioni comunicanti - attraverso gli strati meno compatti della mielina nei pressi delle incisure di Schmidt-Lanterman e le spirali paranodali, il cui compito è quello di garantire nutrimento alle cellule nervose. Numerose sono le mutazioni a danno del gene GJB1 ma il fenotipo di malattia non si discosta molto da quello delle forme dominati (caratterizzato da atrofia e progressiva debolezza muscolare), se non che la CMT X1 si presenta con maggior frequenza nei maschi giovani (dai 5 ai 20 anni di età).
Nel 2019, con una pubblicazione sulla rivista Human Molecular Genetics l’équipe del professore Kleopa, dell’unità di Neurologia presso l’Istituto di Neurologia e Genetica di Nicosia (Cipro), aveva messo a punto una terapia genica basata su un lentivirus opportunamente modificato per trasportare una copia del gene codificante per la connessina 32. LV-Mpz.GJB1 - questo il nome del costrutto - è stato testato in studi preclinici con un’iniezione intratecale - praticata a livello lombare, direttamente nel liquido spinale - in esemplari di topo di circa 6 mesi affetti da CMT X1. I ricercatori hanno osservato l’espressione della proteina cx 32 nelle radici lombari e nei nervi sciatici, proprio a livello delle aree paranodali. Inoltre, i topi trattati hanno incrementato le loro prestazioni motorie, mostrando un aumento della velocità di conduzione del segnale nervoso (solitamente ridotto nella malattia) a livello del nervo sciatico. È stato riscontrato anche un miglioramento del processo di mielinizzazione e una riduzione dell’infiammazione nelle radici lombari e nei nervi periferici, unita a una maggiore innervazione del muscolo quadricipite.
Si tratta di un risultato incoraggiante, soprattutto in considerazione del fatto che i topi trattati avevano già sviluppato alcuni segni della malattia. Ciononostante, il gruppo del professor Kleopa, consapevole dei limiti dei vettori lentivirali (non esenti da possibili integrazioni nel genoma dell’ospite) si è impegnato nel perfezionamento del metodo, scegliendo un vettore virale adeno-associato (AAV) per il trasporto della versione corretta del gene GJB1 nelle cellule di Schwann. In un successivo articolo apparso a fine 2021 sulla rivista Gene Therapy sono descritti gli esiti di questa ricerca che confermano l’effetto terapeutico della terapia genica in modelli murini, sia nelle precoci che nelle tardive fasi della malattia. I vettori AAV9 erano già stati impiegati nella progettazione di terapie destinate a malattie del sistema nervoso centrale ma lo studio di Kleopa e del suo gruppo ne ha dimostrato le potenzialità anche in strutture del sistema nervoso periferico (le cellule di Schwann).
LE STRATEGIE PER CMT1A, CMT X1 E CMT 2D
L’anno successivo, sulla stessa rivista sono stati pubblicati i risultati del lavoro svolto dal gruppo del prof. Jerry Mendell del Nationwide Children’s Hospital di Columbus (Ohio), nome noto nel campo delle terapie avanzate poiché ha guidato con successo diversi studi clinici con la terapia genica per l’atrofia muscolare spinale e per la distrofia muscolare di Duchenne. Questa terapia genica sperimentale adopera un vettore AAV di tipo 1 (AAV1) per introdurre nei topi il gene della neurotrofina 3 (NT-3), una proteina che gioca un ruolo centrale nella sopravvivenza e nella differenziazione delle cellule di Schwann, stimolando il processo di rigenerazione dell’assone e di formazione della mielina. Inoltre, essa contribuisce al mantenimento dell’integrità della giunzione neuromuscolare, alla crescita muscolare e alla sintesi di nuovi mitocondri.
I ricercatori guidati da Mendell erano convinti che fornendo NT-3 alle cellule di Schwann fosse possibile attivare un processo di rimielinizzazione, limitando in tal modo l’impatto della malattia. Hanno quindi testato il loro approccio in un modello murino di CMT1A, il principale sottotipo della malattia di Charcot-Marie-Tooth, e lo stanno valutando anche in modelli di CMT X1, da cui è emersa la preservazione della funzione muscolare degli esemplari trattati. I segnali elettrofisiologici registrati hanno confermato il beneficio, con un incremento della velocità di condizione del segnale, mentre gli esami istopatologici hanno evidenziato un ispessimento dello strato di mielina. Tutto ciò non solo ha supportato il valore di un tale approccio (auspicando un passaggio alle fasi di sperimentazione clinica) ma è servito anche ad ipotizzare una sua estensione alla CMT 2D. Quest’ultima è una forma della malattia di Charcot-Marie-Tooth, cosiddetta “assonale”, a trasmissione autosomica dominante, scatenata da mutazioni nel gene GARS: in questo caso a essere compromesse non sono le cellule di Schwann ma l’assone stesso, perciò la velocità di conduzione del segnale risulta particolarmente scarsa. Anche in questo caso, la terapia genica sperimentale ha prodotto significativi miglioramenti sia a livello della funzione motoria che di trasmissione del segnale nervoso nei modelli murini.
LE STRATEGIE PER CMT 4J E CMT 4C
In un articolo apparso nel 2021 sulle pagine di The Journal of Clinical Investigation, si può leggere come un altro gruppo di ricerca statunitense ha messo a punto una terapia genica che veicola il gene FIG4 mediante un vettore AAV9 testandola su esemplari di topo affetti da CMT 4J. Questa rara forma di malattia è molto variabile quanto a presentazione clinica ed età di insorgenza. FIG4 - un gene associato anche ad alcune forme di SLA - codifica per un’omonima proteina coinvolta nella sintesi di un fosfatidilinositolo, il cui ruolo nei processi di traffico di membrana e di segnalazione cellulare è stato già accertato. L’obiettivo dei ricercatori era di poter intervenire sui processi di formazione della mielina intorno ai fasci nervosi, fornendo una versione corretta di FIG4. In effetti, negli studi preclinici condotti, la somministrazione del costrutto AAV9-FIG4 ha prodotto un allungamento della sopravvivenza dei topi nei quali sono stati osservati miglioramenti della funzione motoria senza particolari eventi avversi, cosa che suggerisce non solo un buon livello di efficacia ma anche di sicurezza della terapia genica sperimentale.
Infine, da un precedente articolo pubblicato sulla rivista Brain dal team di ricerca di Kleopa (Cipro) si apprende della sperimentazione di una terapia genica che, sfruttando un vettore lentivirale, veicola una copia corretta del gene SH3TC2, coinvolto nella genesi della malattia di Charcot-Marie-Tooth di tipo 4C. La somministrazione del trattamento per via intratecale in topolini ha mostrato un incremento della performance motoria. Miglioramenti significativi sono stati registrati anche in termini di condizione del segnale, di formazione della mielina e, soprattutto, nel livello dei neurofilamenti dosati su sangue e considerati un marcatore di degenerazione assonale utile anche per altre patologie neurodegenerative, fra cui la SLA.
Da questa panoramica si evince come i ricercatori stiano lavorando su più fronti, con strategie diverse per sviluppare una terapia genica che possa aprire un nuovo capitolo nella storia della malattia di Charcot-Marie-Tooth. Bisogna però sottolineare che gli studi qui descritti sono stati svolti su modelli di topo, dentro le mura di un laboratorio, e non negli ospedali, sui pazienti. Probabilmente non tutte le terapie geniche riportate arriveranno alla fase clinica (e meno ancora giungeranno in commercio), ma esse costituiscono l’audace promontorio della ricerca che si affaccia sul mare della malattia. Perché diventino un ponte in grado di attraversarlo serviranno molto tempo e ingenti finanziamenti.