Eugenio Montini (SR-Tiget): “Grazie alla comprensione delle dinamiche del successo della ricostituzione ematopoietica, lo studio apre le porte a trattamenti più personalizzati”
Uno studio, recentemente pubblicato su Nature dal team di ricerca dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) di Milano, ha rivelato nuovi dettagli sulla sicurezza e sull’efficacia a lungo termine della terapia genica con cellule staminali ematopoietiche modificate tramite vettori lentivirali (LV). Si tratta dello studio più completo mai condotto su questa tecnica, che promette di trasformare il trattamento di malattie genetiche rare. L’analisi ha preso in considerazione 53 pazienti sottoposti a terapia genica per tre diverse patologie: la leucodistrofia metacromatica (MLD), la sindrome di Wiskott-Aldrich (WAS) e la beta-talassemia, con un follow-up fino a 8 anni. Ne abbiamo parlato con il dott. Eugenio Montini, group leader in SR-Tiget che ha diretto lo studio.
CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE E VETTORI LENTIVIRALI
La terapia genica autologa con cellule staminali ematopoietiche è un’opzione che ha trovato applicazione non solo nelle malattie genetiche che colpiscono il sangue e il sistema immunitario, ma anche metaboliche. La procedura consiste nel prelievo delle cellule staminali del paziente, la loro modifica genetica attraverso l’utilizzo di vettori in grado di trasportare all’interno delle cellule le informazioni necessarie a correggere il gene difettoso, e la successiva reintroduzione nell’organismo. Queste cellule modificate si integrano poi nel midollo osseo del paziente, rigenerando il sistema ematopoietico e immunitario in maniera stabile. Ma questo come avviene? Lo spiega il gruppo coordinato da Eugenio Montini su Nature, in uno studio intitolato “Long-term lineage commitment in hematopoietic stem cell gene therapy”, ripreso anche in un articolo più divulgativo firmato da Teng Gao e Vijay G. Sankaran (entrambi della Division of Hematology and Oncology al Boston Children’s Hospital e alla Harvard Medical School, the Howard Hughes Medical Institute, e al Broad Institute of MIT and Harvard), pubblicato sempre su Nature.
I principali vettori utilizzati per uso clinico includono vettori gamma-retrovirali, adenovirali, adeno-associati e lentivirali (anche se non sono gli unici) e i più utilizzati sono quelli di tipo adeno-associato e lentivirali. Ad oggi non esiste un vettore ideale che risponda a tutte le necessità: ognuno presenta punti di forza e debolezza e la scelta viene fatta sulla base delle cellule target, delle dimensioni del carico genetico, delle capacità di inserire l’informazione genetica in maniera stabile, di quello che la cellula deve fare con questa informazione e della risposta immunitaria che il vettore può causare nell’organismo. Inoltre, è più recente l’uso di vettori non virali (ne abbiamo parlato qui), che seppur mostrando alcuni vantaggi, la loro efficacia deve essere ancora ottimizzata.
I vettori lentivirali, che derivano dall’HIV, permettono un’integrazione stabile dei geni terapeutici nel genoma delle cellule staminali ematopoietiche, garantendo una produzione duratura di cellule sane. Questo perché, pur essendo il virus modificato per essere incapace di replicarsi, mantiene la sua capacità di infettare le cellule e integrarsi stabilmente nel genoma. Questi vettori sono utilizzati in diverse terapie geniche, sia autorizzate che sperimentali. Tra queste, quella già approvata per la leucodistrofia metacromatica (MLD), la terapia genica sperimentale in fase avanzata per la sindrome di Wiskott-Aldrich (WAS) e quella per la mucopolisaccaridosi di tipo I (Hurler).
UNO STUDIO PIÙ APPROFONDITO
Il gruppo guidato da Eugenio Montini ha seguito una coorte eterogenea di 53 pazienti per un periodo fino a otto anni, osservando come le cellule geneticamente corrette si siano integrate e differenziate nei vari tipi di cellule del sangue (mieloidi, linfociti ed eritroidi).
“Per otto anni – anche se ormai li abbiamo superati – abbiamo studiato il sangue di questi pazienti”, spiega Montini. “Le cellule staminali ematopoietiche hanno questa capacità meravigliosa di essere in grado di ricostruire il sistema ematopoietico, ripopolando le cellule del sangue e fornendo il gene terapeutico. Inizialmente abbiamo fatto studi di biosicurezza su cellule non purificate, su sangue globale, sui pazienti affetti da WAS e MLD. Questi dati sono stati già pubblicati a partire dal 2013. Successivamente è stata aggiunta anche la beta-talassemia. Questo studio è ancora più approfondito dei precedenti e va a vedere come si sono comportate le singole cellule (T, B, monociti e le cellule rosse del sangue). Tutto questo è stato possibile grazie al coinvolgimento dei clinici e al fatto che i pazienti sottoposti a terapia genica vengono costantemente monitorati e una parte di sangue e di midollo prelevati vengono utilizzate per le analisi cliniche e di monitoraggio a livello molecolare”.
QUANDO LA TERAPIE SI ADATTA ALLA MALATTIA
Lo studio ha confermato che le cellule staminali ematopoietiche trapiantate riescono ad attecchire molto bene, a rigenerare tutto il sistema ematopoietico, e a mantenersi attive e sane nel tempo. Un’osservazione particolarmente interessante riguarda il modo in cui le cellule staminali rispondono ai segnali fisiologici del corpo.
“Queste cellule riescono ad adattarsi al tipo di malattia: se c'è bisogno di produrre cellule rosse, come per esempio nel caso dei pazienti con beta-talassemia, queste cellule producono più eritrociti. Nel caso della WAS, in cui il deficit riguarda le cellule delle linee T e B, è stato visto che venivano prodotte più cellule immunitarie. Lo stesso per la leucodistrofia metacromatica, che è una malattia di accumulo lisosomiale, in cui la produzione incrementata riguarda le cellule mieloidi. Abbiamo rilevato che in ogni condizione, circa la metà delle cellule cloni si è specializzata in base alle ‘richieste’ della malattia. Era quello che ci aspettavamo in linea teorica ed è stato bello vederlo confermato dai dati sperimentali”, aggiunge il dott. Montini. Infatti, lo studio ha suggerito che i livelli di alcune molecole chiave, chiamate citochine (come la trombopoietina, che favorisce la produzione di piastrine, e l’eritropoietina, che invece promuove quella dei globuli rossi), potrebbero influenzare il comportamento delle cellule trapiantate. Nei pazienti con WAS, ad esempio, i livelli di trombopoietina, sono inizialmente alti ma si normalizzano nel tempo grazie al miglioramento della funzione ematopoietica.
La tecnica utilizzata si chiama clonal tracking e prevede la mappatura dei siti di integrazione dei vettori lentivirali, così da seguire il comportamento delle cellule nei diversi gruppi di pazienti, partendo da campioni di sangue e midollo osseo. Questo approccio ha permesso di ampliare le conoscenze sui meccanismi biologici alla base del processo di ricostituzione e della differenziazione delle cellule staminali.
È stata anche confermata la sicurezza a lungo termine: infatti, non sono stati rilevati segni di espansioni clonali anomale o rischi di trasformazione maligna. Lo sviluppo di tumori che hanno origine da cellule ematopoietiche resta una delle preoccupazioni collegate a queste terapie.
VERSO IL FUTURO DELLA TERAPIA GENICA
E questo lavoro di analisi continuerà nel tempo. “La terapia genica è un trattamento innovativo, di cui si sa ancora poco sugli effetti a lungo termine, e il monitoraggio continuerà nei prossimi anni”, sottolinea Montini. “E questo non vale solo per quello che abbiamo fatto noi, cioè il clonal tracking, ma in generale per valutare tutti gli aspetti clinici in primis – per la tutela del paziente e per individuare il prima possibile eventuali problemi – e poi anche ai fini di ricerca. I dati li stiamo costruendo ora e saranno la base per comprendere quali direzioni prendere in futuro. I vettori lentivirali li conosciamo da decenni e sono la piattaforma su cui abbiamo più dati real-life probabilmente, ma hanno ancora molto da dire e i risultati lo dimostrano”.
La terapia genica con cellule staminali ematopoietiche e basata sull’utilizzo di vettori lentivirali rappresenta una delle frontiere più promettenti della medicina rigenerativa, offrendo speranze concrete a migliaia di pazienti affetti da malattie genetiche rare e debilitanti. Pur essendo diverse le terapie di questo tipo già approvate in Europa e/o all’estero, il lavoro di ricerca e monitoraggio non è sul punto di concludersi, anzi. Questo studio lo dimostra e sottolinea l’importanza di proseguire in questo affascinante percorso ricco di sfide e di traguardi raggiunti (e ancora da raggiungere).
“Oltre al nostro lavoro, che riguarda l’aspetto biologico, e alla collaborazione con i clinici che seguono direttamente i pazienti, è stato fondamentale lavorare a fianco degli ingegneri informatici, tra cui Andrea Calabria, che è il primo autore dello studio. Anche questa è stata una sfida: unire i diversi tipi di linguaggio nella stessa ricerca per ottenere un buon risultato. È stata una bella esperienza, molto costruttiva”, conclude il dott. Montini.