Stefania, Alessia e Gaia, le tre pazienti italiane trattate a Bergamo nell’ambito del trial clinico CareCN, raccontano la loro esperienza con la terapia genica che gli sta cambiando la vita
Il Natale è ormai alle porte e tra i regali sotto l’albero non manca mai il classico pigiama. Ma c’è anche chi non ne ha mai ricevuto uno. Stefania, Gaia e Alessia fanno parte di questa rara categoria, o meglio, ne facevano parte fino a poco fa, perché ora la loro vita è cambiata e hanno deciso di raccontare questa storia attraverso l’Osservatorio Terapie Avanzate. “Quando sei costretta a dormire nuda sotto le lampade della fototerapia è normale che a nessuno venga in mente di regalarti un pigiama per Natale” racconta Stefania Moro, giovane modellista di calzature veneziana, affetta dalla sindrome di Crigler-Najjar (CN), rarissima malattia ereditaria del metabolismo della bilirubina. “Il primo pigiama della mia vita me lo sono comprato da sola, dopo la terapia genica” continua emozionata. “Sembra una cosa così banale, eppure è l’emblema di quanto fosse diversa la mia vita prima di partecipare allo studio clinico CareCN”.
Fino a poco tempo fa, infatti, per chi era affetto dalla sindrome di CN, a parte il drastico e invasivo trapianto di fegato, la sola strategia per tenere sotto controllo i livelli di bilirubina, neurotossica ad alte concentrazioni, era dormire tutta la notte sotto i raggi ultravioletti (fototerapia). “Dovevo passare almeno otto ore sotto la lampada”, spiega Alessia Margherita, ventiduenne studentessa di culture e pratiche della moda, anche lei affetta dalla sindrome di CN. “La fototerapia illuminava la mia metà del letto matrimoniale”, racconta Gaia Groppi, specialista in risorse umane, “adesso prendo in giro mio marito dicendogli che, se volessi, potrei ‘rubargli’ tutto il letto. Non sono più confinata nella mia metà.” Gaia aveva raccontato la sua storia già a febbraio, nel format “TheRARESIDE” di Osservatorio Malattie Rare, ma ai tempi la notizia della terapia genica era ‘top secret’, in attesa degli esiti.
Oggi, infatti, le tre ragazze trattate con la terapia genica presso l’Ospedale Papa Giovanni XIII di Bergamo hanno finalmente spento le lampade che le costringevano a dormire sotto la luce blu. “Ero vincolata alla fototerapia”, racconta Alessia. “Quando stavo meno di sette/otto ore sotto le lampade mi sentivo stanchissima e i livelli di bilirubina si alzavano”.
“In vacanza si andava solo al mare - scherza Stefania - così anche il sole preso durante il giorno aiutava a smaltire la bilirubina in eccesso”.
“Se le mie amiche organizzavano un pigiama party non ci potevo andare”, ricorda Gaia. “Stessa cosa per le gite scolastiche: se duravano più di un giorno sapevo già che sarei rimasta a casa”.
La fototerapia è fondamentale e deve essere eseguita quotidianamente perché rappresenta l’unico strumento in grado di degradare la bilirubina, prodotto di rifiuto derivante dal metabolismo dell'emoglobina. Come tre girasoli per tutta la vita sono state costrette a seguire la luce: quella del sole di giorno e quella delle lampade di notte. Per un difetto genetico, infatti, il loro fegato è incapace di trasformare la bilirubina in una forma idrosolubile che può essere eliminabile nella bile. In particolare, la sindrome di CN è caratterizzata dal malfunzionamento dell’enzima epatico UGT1A1 (bilirubina-UDP-glucuronosiltransferasi), che ha il compito di metabolizzare la bilirubina, trasformandola da non coniugata (indiretta) a coniugata (diretta). Il conseguente accumulo di bilirubina è responsabile del colore giallastro della pelle e delle sclere degli occhi (ittero). “Tutte le volte che andavo dalla parrucchiera, di fronte al mio cuoio capelluto giallognolo, la pettinatrice mi chiedeva se mi fossi tinta i capelli con l’hennè”, ricorda Stefania sconfortata. “Non trovavo nessun fondotinta che fosse dello stesso tono della mia pelle”, racconta Alessia.
“Quando ero piccola e andavo all’asilo, gli altri bambini mi chiedevano perché avessi gli occhi così gialli. Rispondevo a tono, dicendo che li coloravo con i pennarelli, perché mi piacevano così”, dice Stefania sorridendo. “Crescendo le cose si sono fatte più complicate, gli altri ragazzi erano curiosi e le mie risposte, sempre telegrafiche, non bastavano mai; iniziavano a uscire i primi soprannomi: ‘Lisa Simpson’, ‘i Minions’, ‘SpongeBob’… Al liceo sono stata costretta a cambiare scuola: si era sparsa la voce che avessi l’epatite e che fossi contagiosa. Nessuno voleva più starmi accanto”. Anche Gaia ha dei ricordi simili: “Era difficile spiegare agli altri bambini che non potevo infettarli e, anche nel mio caso, qualche compagno di scuola aveva iniziato a prendermi in giro per il colore della mia pelle”. “La mia famiglia, però, mi ha sempre supportato”, continua la ragazza lombarda. “I miei genitori non mi hanno mai trattato come malata e mi hanno cresciuto come una bambina normalissima. È stato anche grazie a loro se ho imparato ad accettarmi per come sono”.
Gaia, Alessia e Stefania sono tre giovani donne, cresciute prima del tempo. “Mi hanno sempre detto che ero molto più matura dei miei coetanei”, racconta Gaia con un po’ di amarezza. “Un bel complimento, ma la mia maturità l’ho dovuta pagare a caro prezzo. Sono cresciuta prima degli altri per gli ostacoli che la vita mi ha messo davanti, perché già da bambina sapevo che alla sera avrei acceso la lampada e avrei preso le medicine”. La condizione, infatti, se non adeguatamente trattata, può portare a danni neurologici importanti. Fino ad oggi, l’unica procedura in grado di correggere definitivamente il difetto era il trapianto di fegato. Tuttavia, si tratta di un intervento molto invasivo che prevede un trattamento immunosoppressivo da continuare per tutta la vita, per scongiurare il rischio di rigetto.
Per questa ragione è da molto tempo che si cercano soluzioni alternative per la cura della sindrome di Crigler-Najjar. Lo studio CareCN è la prima speranza concreta e i risultati stanno superando le aspettative. Il trattamento prevede l’utilizzo di un virus adenoassociato (AAV) che, reso innocuo, funziona come una microscopica navicella spaziale capace di veicolare una copia ‘sana’ del gene UGT1A1 direttamente alle cellule del fegato. La terapia sembra aver funzionato molto bene e ora le tre pazienti sono in grado di sintetizzare autonomamente l’enzima che permette di metabolizzare la bilirubina. Gaia, Alessia e Stefania sono tuttora seguite dal team di professionisti composto dal prof. Lorenzo D’Antiga, coordinatore dello studio clinico, dalla biologa Marina Ferrario e dal pediatra Angelo Di Giorgio. Il monitoraggio dei pazienti che hanno ricevuto la terapia genica andrà avanti fino al 2026.
“Abbiamo scoperto dello studio clinico CareCN grazie all’associazione di pazienti CIAMI APS che ci ha fornito i contatti per poterci arruolare nel trial”, spiegano le tre ragazze. Ogni anno l’associazione organizza un weekend di incontri, corsi, convegni e seminari per l’aggiornamento dei medici e per lo scambio e la diffusione delle conoscenze tra pazienti ed esperti.
“Frequentavo ancora le scuole medie quando, durante uno di questi fine settimana che si tenevano a Riccione, ho sentito parlare per la prima volta di terapia genica”, racconta Stefania. “Avevano proiettato alcuni filmati che mostravano dei topini itterici che, dopo l’infusione, tornavano ad assumere una colorazione normale”, continua la ragazza. “Gli anni successivi la sperimentazione era passata alle scimmie e mio padre mi ripeteva: ‘Vedrai che prima del tuo trentesimo compleanno la terapia arriverà anche all’uomo’. Aveva ragione: compirò trent’anni il 14 di novembre”. Stefania è stata trattata a giugno del 2021 e anche lei, come le altre due ragazze, ha ottenuto in pochi giorni una drastica riduzione delle concentrazioni di bilirubina nel sangue. “I risultati di questa sperimentazione hanno superato di gran lunga le mie aspettative”, gioisce Alessia. “Non avevo mai avuto una concentrazione così bassa di bilirubina: mi sento molto meno stanca”.
Oltre al Papa Giovanni XIII di Bergamo, lo studio vede il coinvolgimento di altri tre centri in Europa: un altro in Italia (Ospedale Federico II di Napoli, coordinato dal prof. Nicola Brunetti-Pierri, uno in Francia e uno in Olanda. Prima delle tre ragazze italiane sono stati trattati altri due pazienti (uno in Francia e uno in Olanda), ma con una dose di terapia genica minore: l’effetto terapeutico è stato temporaneo e insufficiente a consentire l'interruzione prolungata della fototerapia. Il trial prevede il reclutamento di 17 pazienti in totale e, se tutto procede secondo i piani, il prossimo paziente sarà trattato a gennaio 2022 presso l’Ospedale Federico II di Napoli, sotto il coordinamento del prof. Nicola Brunetti-Pierri. Per avere i risultati definitivi della sperimentazione bisognerà attendere il 2026, poiché sono necessari 5 anni di follow-up per definire l’efficacia (in termini di riduzione delle concentrazioni di bilirubina nel sangue) e i potenziali effetti avversi.
“La pandemia ci obbliga a rimanere a casa,” conclude Gaia, “ma io sono più serena perché so che, se volessi, potrei andare ovunque. Sopra il mio letto non c’è più nessuna lampada a trattenermi”.
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