Nella ricorrenza della Giornata Mondiale contro le Epatiti si discute di una terapia genica per ridurre complicanze e decessi da epatite B
Il nemico da temere di più è sempre quello che non si vede: questo vale tanto per alcuni tumori le cui manifestazioni cliniche si rendono evidenti solo nelle fasi già avanzate di malattia, quanto per le infezioni virali, come quelle suscitate dall’HIV o dal virus dell’epatite B che colpiscono milioni di persone nel mondo. Nonostante i progressi in campo terapeutico, non sono ancora state eradicate. In una review pubblicata sulla rivista The New England Journal of Medicine un gruppo di ricercatori dello University College e del King's College Hospital di Londra ha riassunto lo status quo relativo sia alle moderne metodiche di individuazione del virus e diagnosi della malattia, sia alle promesse terapeutiche per contenere l’infezione. Tra quest’ultime figura anche la terapia genica.
LA GIORNATA MONDIALE DELLE EPATITI
Il 28 luglio - giorno in cui nacque Baruch Blumberg, il biologo che scoprì l’epatite B alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso - si celebra il “World Hepatitis Day”, ricorrenza mondiale dedicata alle epatiti, con la quale l’OMS vuole ribadire l’impegno a garantire ai malati di tutti i Paesi del mondo un adeguato trattamento. Secondo i dati più aggiornati a livello mondiale sono circa 300 milioni le persone affette da epatite B, buona parte delle quali vive in Paesi a reddito medio-basso. Ogni anno quasi un milione di persone muore in seguito alle complicanze dell’infezione del virus dell’epatite B e, in assenza di interventi, il numero complessivo salirà oltre questa soglia entro il 2035. L’individuazione di più precisi strumenti di diagnosi e il perfezionamento dei regimi terapeutici hanno, di fatto, contribuito alla “cronicizzazione” delle malattie suscitate da questi virus ma le priorità stabilite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) rimangono di facilitare ai pazienti l’accesso alle cure e, soprattutto, ridurre le nuove infezioni e i decessi. A questo fine potranno contribuire anche le terapie avanzate.
IL VIRUS DELL’EPATITE B
La carta d’identità del virus dell’epatite B costituisce un primo indicatore del tipo di minaccia da esso rappresentata: si tratta di un virus a DNA a trasmissione sessuale o per contagio nel corso del parto, da madre infetta al neonato. Quest’ultima modalità risulta particolarmente pericolosa dal momento che oltre il 90% dei bambini contagiati alla nascita sviluppa la forma cronica della malattia. Infatti, se la forma acuta tende a risolversi spontaneamente - non esistono comunque terapie per prevenire l’insorgenza di eventuali complicanze - l’epatite B cronica non ha una cura definitiva: i problemi in questo caso sono legati al rischio di sviluppare cirrosi e, in non pochi casi, anche epatocarcinoma cellulare.
Il trattamento dell’epatite B cronica prevede l’utilizzo di farmaci antivirali in grado di rallentare la progressione dell’infezione, tendendola sotto controllo e abbassando il rischio che si instauri la cirrosi o si sviluppi il carcinoma epatico. L’uso dell’interferone-alfa-2b (IFN-alfa) ha aperto la strada ma oggi esso è stato soppiantato dall’interferone-alfa pegilato a cui si aggiungono farmaci antivirali orali, come entecavir (un analogo nucleosidico) o tenofovir (un analogo nucleotidico). Il protocollo terapeutico dell’epatite B cronica è meno semplice di quel che sembra, richiede un attento monitoraggio del paziente e ha come obiettivo la riduzione dei livelli di HBV-DNA. In genere non può essere interrotto ed è per questo che medici e biologi di tutto il mondo sono impegnati nello sforzo di trovare una combinazione di farmaci che possa eradicare, degradare o silenziare il DNA del virus, rappresentando così una cura definitiva della malattia.
TERAPIE A RNA PER COMINCIARE
Oltre ai farmaci che interferiscono con l’ingresso nelle cellule del virus, promettono bene quelli basati sul meccanismo dell’interferenza a RNA che includono sia i siRNA (small interfering RNA) che gli oligonucleotidi antisenso (ASO), la cui azione è rivolta alla degradazione di specifiche sequenza di RNA messaggero: attualmente sono in fase di valutazione insieme ad altri farmaci modulatori delle fasi di assemblaggio del capside virale.
I dati provenienti dagli studi clinici preliminari mostrano una riduzione del livello di HBsAg (l’antigene superficiale del virus dell’epatite B, considerato un indice precoce della comparsa di malattia) e possono dirsi incoraggianti. Occorrerà, però, attendere la conclusione dei trial per avere un’idea realistica del loro impatto terapeutico.
EDITING GENETICO E TERAPIA GENICA
Oltre a ciò permangono in fase di valutazione pre-clinica approcci basati sul sistema di editing genomico Crispr-Cas9, capace di prendere di mira il cccDNA (un particolare tipo di DNA, circolare chiuso covalentemente, che si forma nelle fasi di propagazione del virus), modificandolo fino a interferire col ciclo vitale del virus.
Un altro interessante tentativo di sconfiggere l’HBV si basa sulla terapia genica, mediante la quale si spera di riattivare il sistema immunitario per spingerlo a contrastare l’infezione suscitata dal virus. Uno dei protagonisti di questo filone di studio è il dott. Matteo Iannacone, responsabile dell’unità di Dinamica delle Risposte Immunitarie presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. Con un articolo pubblicato alcuni anni fa sulla rivista Nature, Iannacone insieme a Luca Guidotti, vice-direttore scientifico dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e professore ordinario presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, e Renato Ostuni, group leader del laboratorio di Genomica del sistema immunitario innato, aveva fatto chiarezza sui meccanismi che spiegano l’inefficace risposta immunitaria che nei pazienti con epatite B cronica non riesce a far fronte alla malattia. I ricercatori si sono interrogati sui motivi per cui il sistema immunitario versa in difficoltà e, in un modello murino dell’epatite B, hanno osservato che i linfociti T deputati ad attaccare il virus risultano purtroppo impotenti di fronte alla forma cronica della malattia. Mediante l’utilizzo di avanzate tecniche di microscopia Iannacone e i suoi colleghi hanno potuto scoprire che nell’epatite B cronica i linfociti T sono disfunzionali fin dalla loro attivazione, che avviene per contatto diretto con le cellule infette del fegato.
Tutto ciò ha permesso loro di comprendere perché alcuni farmaci usati per il trattamento della forma cronica non riuscissero a funzionare bene e, al contempo, di identificare molecole - come l’interleuchina-2 (IL-2) - con cui risvegliare il sistema immunitario. Ma, come abbiamo già avuto modo di capire tramite la storia di Linda Taylor, la somministrazione sistemica di IL-2 può avere pericolosi effetti sull’organismo. Pertanto, il team di Iannacone spera di potersi avvalere di specifici vettori virali per somministrare l’IL-2 in modo mirato solo al tessuto epatico. La terapia genica per l’epatite B cronica non potrebbe nascere sotto auspici migliori.
Poco meno di sessant’anni fa Blumberg e i suoi colleghi, non disponendo dei mezzi per studiare i geni umani, si concentrarono sulle proteine del sangue - sugli antigeni - e scoprirono nelle popolazioni asiatiche l’antigene “Australia” che era, in realtà, parte di una proteina virale presente in quanti avevano contratto l’infezione da HBV. La storia dell’epatite B ha inizio così e a distanza di tanti anni - con milioni di contagi e decessi accumulati - l’OMS fissa un obiettivo per il 2030: ridurre le nuove infezioni da HBV del 90% e la mortalità del 65%. Una sfida che, come abbiamo visto, potrebbe passare anche dalle terapie avanzate.