I ricercatori del Tigem di Pozzuoli hanno valutato l’affidabilità del loro trattamento sperimentale a diversi anni dalla somministrazione in quattro piccoli pazienti
Una terapia genica in sperimentazione per una malattia rara può essere paragonata a una navetta spaziale che sulla carta è in grado di esplorare i lati più nascosti dell’universo: genera un forte entusiasmo iniziale e raccoglie consenso e partecipazione, ma bisogna accertarsi che nella pratica continui a funzionare bene per periodi prolungati di tempo al fine di garantire la sicurezza degli astronauti e raggiungere tutti gli obiettivi fissati. Per questa ragione, in uno studio clinico pubblicato sulla rivista Med-Cell Press gli scienziati dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem), coordinati dal professor Nicola Brunetti-Pierri, hanno valutato sia l’efficacia che la sicurezza di una terapia genica sperimentale per la mucopolisaccaridosi di tipo VI (MPS VI) a distanza di almeno 3 anni dalla somministrazione.
Sono sette gli anni trascorsi dall’inizio della sperimentazione clinica di Fase I/II - completata proprio quest’anno - che vede come protagonista questo trattamento sperimentale studiato nei laboratori dell’Istituto Tigem, attualmente diretto dal professor Alberto Auricchio che già due anni fa aveva commentato per Osservatorio Terapie Avanzate gli esiti preliminari dello studio.
I FANTASTICI QUATTRO
Fino ad oggi, sono nove i bambini sottoposti al trattamento e tra loro ci sono Alba, Violet, Jasper e Yvonne, le cui condizioni cliniche si trovano riportate nell’articolo pubblicato su Med-Cell Press dal momento che sono stati loro a ricevere la dose più alta del farmaco nel contesto del trial clinico. Provengono da differenti paesi del mondo e hanno storie - ben descritte anche sul sito di Fondazione Telethon - molto diverse. Alba, una bambina spagnola di sette anni, è la più piccola persona al mondo ad aver ricevuto il trattamento sperimentale sviluppato a Pozzuoli: i suoi genitori si sono conosciuti lavorando in ospedale e alla sua nascita hanno immediatamente compreso che qualcosa non andava, iniziando un lungo percorso per arrivare alla diagnosi e poi alla terapia. I genitori di Violet, canadese nata nel 2009, hanno iniziato subito a cercare informazioni sulla malattia della loro figlia più piccola arrivando a mettersi in comunicazione con una Fondazione attraverso cui la bambina ha avuto accesso alla terapia enzimatica. Jasper è l’unico di tre fratelli ad aver ereditato il gene per la malattia che ha portato i suoi genitori alla ricerca di ogni possibile soluzione di cura, mettendosi così in contatto con i ricercatori italiani del Tigem. Infine, Yvonne è una bambina leccese con la passione per il teatro e una tempra inossidabile, nonostante vari problemi di salute emersi fin da quando era piccola. Oltre ad aver ricevuto la stessa terapia genica, tutti e quattro i bambini hanno in comune il fatto di essere affetti dalla mucopolisaccaridosi di tipo VI.
UNA MALATTIA RARA E SCONOSCIUTA
Anche conosciuta come sindrome di Maroteaux-Lamy, questa malattia fa parte delle mucopolisaccaridosi, un gruppo di patologie ereditarie contraddistinte da difetti nel metabolismo dei lisosomi: il deficit di certi enzimi può, infatti, determinare l’accumulo di prodotti di scarto non metabolizzati nei tessuti, con conseguenze generalizzate per tutto l’organismo. Nel caso della MPS VI l’enzima in questione è l’arisulfatasi B (ARSB, N-acetilgalattosamina-4 sulfatasi) la cui mancanza determina un accumulo di glicosaminoglicani (GAG) nelle cellule e nei tessuti, suscitando le disfunzioni tipiche della malattia, tra cui macrocefalia, bassa statura e tratti del viso grossolani. Spesso sono presenti anomalie ossee (mani ad artiglio, lordosi lombare e coxalgie che cominciano a manifestarsi dopo i 3-4 anni). Altri sintomi sono a carico del sistema respiratorio e cardiovascolare (disfunzioni delle valvole aortiche) e non mancano problemi al fegato e alla milza (epato-splenomegalia) e agli occhi (opacità corneali). Dal momento che l’accumulo di glicosaminoglicani interessa vari organi e apparati, i sintomi della MPS VI non hanno una localizzazione unica ma colpiscono l’intero l’organismo. Per questa condizione - di cui esistono forme lievi, intermedie e gravi - sono disponibili la terapia enzimatica sostitutiva (ERT), come quella a cui ha avuto accesso Violet, ed il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (HSCT). Si tratta però di procedure costose, complesse sul piano procedurale e gravate da una efficacia limitata. Perciò serviva una terapia che, correggendo la mutazione d’origine della malattia, potesse ripristinare la produzione dell’enzima arisulfatasi B in quantità tale da ripulire l’organismo dai metaboliti tossici. In questa direzione si sono mossi i ricercatori del Tigem con la loro terapia genica.
UN TRATTAMENTO PROMETTENTE
“Il nostro protocollo di terapia genica è stato il primo, e ancora oggi è l’unico, a essere testato nell’uomo per questa malattia”, spiega Nicola Brunetti-Pierri, professore ordinario di Genetica Medica all’Università degli Studi “Federico II” di Napoli e coordinatore della sperimentazione clinica. “Come tutte le ‘prime volte’, bisogna iniziare valutando la sicurezza: abbiamo quindi cominciato somministrando dosi basse di vettore virale. Confortati dal fatto di non aver osservato effetti dannosi nei primi pazienti trattati, abbiamo aumentato progressivamente la dose”.
Lo studio su Med-Cell Press ha riportato i dati relativi ai quattro bambini trattati con la dose più alta di terapia genica, che sono stati seguiti per una media di 45 mesi dopo aver ricevuto la singola infusione endovenosa del vettore adeno-associato AAV8 contenente il gene ARSB, posto sotto il controllo di uno specifico promotore specifico. Obiettivo principale dello studio era valutare la sicurezza della terapia ma in seconda battuta i ricercatori si sono focalizzati sull’efficacia, mediante la misurazione dell’attività enzimatica di ARSB e dei livelli urinari di GAG e la valutazione della resistenza fisica e della funzione respiratoria.
Nel corso del follow-up i medici italiani non hanno registrato l’insorgenza di effetti collaterali gravi legati alla terapia e non sono stati rilevati segni di tossicità, ma in tutti i pazienti è stato possibile osservare un aumento dei livelli di ARSB dal 38 al 67% rispetto ai valori medi negli individui sani e anche il valore dei GAG si è mantenuto al di sotto di quello osservato nei pazienti non trattati. “In tutti abbiamo osservato una produzione soddisfacente dell’enzima, quanto basta per non dover riprendere l’infusione periodica come accadeva prima della terapia genica”, prosegue Brunetti-Pierri. “Soltanto in un caso abbiamo deciso di ricominciarla per precauzione, perché abbiamo rilevato livelli sopra la norma di glicosaminoglicani nelle urine”. I test del cammino hanno evidenziato un miglioramento della stabilità motoria, le funzioni polmonari e cardiache sono rimaste stabili come pure le dimensioni di fegato e milza, sempre all’interno dei valori di riferimento durante tutto il follow-up.
MOLTO PIÚ CHE QUALCHE SPIRAGLIO DI SPERANZA
Poter sospendere la terapia di sostituzione enzimatica senza compromettere significativamente la loro situazione clinica significa in primis guarire i bambini dai sintomi della malattia e poi liberarli dalla schiavitù delle infusioni settimanali, restituendo loro l’opportunità di vivere una vita quasi uguale a quella dei loro coetanei. Fino a qualche tempo fa questo traguardo era ritenuto pressoché impossibile. Naturalmente, trattandosi di uno studio effettuato su pochi bambini si avverte la necessità di estendere il campione per confermare i risultati. Inoltre, diventa fondamentale proseguire con le valutazioni ed estendere i termini del follow-up, soprattutto per capire se sia utile valutare eventuali combinazioni con altre terapie. “Uno degli aspetti che possiamo migliorare è quello della durata dell’effetto terapeutico”, conclude Brunetti-Pierri. “I vettori di tipo AAV, una volta entrati nelle cellule, non si integrano nel DNA, come fanno invece i vettori lentivirali derivati da HIV. Questo evita i possibili rischi di integrazione in punti critici del genoma, ma al contempo può determinare una perdita di effetto terapeutico nel tempo: quando le cellule si dividono, soprattutto durante la crescita dell’individuo oppure anche nella vita adulta per riparare un danno, il vettore non viene trasmesso alle cellule figlie, che quindi non sapranno più produrre l’enzima mancante. Stiamo quindi studiando come superare il problema sfruttando la tecnologia di editing genetico basata su Crispr-Cas9: invece che inserire nel vettore la copia corretta del gene, potremmo fornire il ‘bisturi molecolare’ in grado di correggere il difetto genetico direttamente sul DNA delle cellule epatiche, in modo definitivo”.
Prospettive che si fondono all’opportunità di evitare l’attacco del sistema immunitario che produce anticorpi contro il vettore virale usato per la terapia genica: ripetendo la somministrazione della terapia o trovando il modo di ridurre anche solo “temporaneamente” la produzione degli anticorpi. Una soluzione che potrebbe rivelarsi vantaggiosa anche per il cammino di sviluppo di altre terapie geniche: l’esplorazione può così continuare grazie a una navicella sicura ed efficace.