Andrea Ditadi

Produrre il sangue artificiale potrebbe aprire le porte ad innovativi approcci terapeutici. Andrea Ditadi, ricercatore del SR-Tiget di Milano, ci illustra la sua ricerca e le possibili future applicazioni

Nonostante il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (HSCs) sia ormai una terapia standard per il trattamento di malattie del sangue, sia congenite che acquisite, rimangono alcune problematiche che ne limitano l’applicabilità, come la difficoltà a reperire donatori compatibili o il ritardo nel recupero ematologico. Generare ex novo HSCs e altre cellule ematopoietiche in vitro aprirebbe la strada a una serie di applicazioni terapeutiche assolutamente rivoluzionarie che andrebbero ben oltre il superamento delle difficoltà nel trapianto di staminali ematopoietiche. Basti pensare alle patologie trasfusione-dipendenti che gioverebbero di una riserva di componenti ematologiche pressoché illimitata, o alla possibilità di produrre cellule del sangue modificate, grazie all’editing genetico, per potenziarne l’azione citotossica nei confronti di un tumore, di un agente patogeno o per riparare le conseguenze di un difetto genetico. 

Produrre il sangue in vitro è una sfida affascinante inseguita da ricercatori di tutto il mondo”, spiega Andrea Ditadi, ricercatore presso l’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano. “Prima di tutto, però, è bene fare una precisazione: ‘sangue artificiale’ è un termine che si usa nella divulgazione ed è un concetto molto ampio dato che il sangue è composto di varie parti. Noi, in laboratorio, ci occupiamo proprio delle sue componenti cellulari e di come produrle. Ad esempio, cerchiamo di capire come si generano i linfociti, i macrofagi, le piastrine o i globuli rossi. Questi ultimi due tipi cellulari sono interessanti per un discorso terapeutico legato alle trasfusioni. Linfociti e macrofagi, invece, potrebbero essere alla base di approcci innovativi contro il cancro o contro diversi tipi di infezioni, oppure in caso di particolari mutazioni, e potrebbero anche essere utilizzati, in futuro, nell’ambito della medicina rigenerativa”.

“Ormai sono dodici anni che mi occupo di sangue e almeno quattro che lavoro alla produzione e differenziazione delle HSCs”, racconta Ditadi. “L’argomento è molto complesso e, ad oggi, conosciamo solo in parte come si forma il sangue”.

PERIODO EMBRIONALE, FETALE E POST-NATALE

La prima grande difficoltà sta innanzitutto nel comprendere le differenze che intercorrono tra le varie fasi dello sviluppo. Durante la fase embrionale, infatti, le cellule si formano e si riproducono a grande velocità e con modalità e caratteristiche diverse rispetto a quelle messe in atto nel periodo post-natale. “Un esempio classico è quello degli eritrociti: la loro funzione, cioè prelevare l’ossigeno e scambiarlo con i tessuti, si esplica in maniera differente a seconda dello stadio di sviluppo. All’inizio, in condizione di ipossia e senza la placenta, l’embrione dev’essere in grado di ‘acchiappare’ tutto l’ossigeno disponibile per diffusione, come alcuni animali semplici (ad esempio le spugne, gli echinodermi o i vermi piatti) che sono privi di un vero e proprio sistema circolatorio. La sua emoglobina, caratterizzata dalla presenza della catena epsilon, ha un’altissima affinità con l’ossigeno. Dopo poche settimane, inizia la fase di placentazione e nascono nuovi eritrociti che esprimono l’emoglobina fetale, caratterizzata dalla catena gamma. Infine, dopo la nascita, inizia la produzione dell’emoglobina adulta, con catena globinica beta”, spiega il ricercatore.

Come gli eritrociti, un po’ tutti i tipi cellulari presentano delle differenze a seconda dello stadio evolutivo, ma siamo ancora lontani dall’avere una panoramica completa. Per ora sappiamo solo alcune cose. Ad esempio, abbiamo capito che durante la vita fetale le cellule staminali si espandono di numero per originare la riserva di HSCs che ci servirà dopo la nascita e che, nella vita fuori dal grembo materno, queste cellule rimarranno quiescenti all’interno del midollo osseo per attivarsi solo in caso di necessità e dietro precisi stimoli. Alcuni studi recenti, inoltre, mostrano che le cellule NK (Natural Killer) sono molto più citotossiche durante la vita embrionale rispetto al periodo post-natale. Per un approccio antitumorale più efficace, quindi, potrebbe essere preferibile derivare le cellule NK da staminali embrionali e trasdurle con un CAR specifico.”, afferma Ditadi. “Tutto questo fa parte di una conoscenza propedeutica alla terapia ed essenziale per capire quale sia l’approccio migliore”.

CELLULE “EDUCATE” DALL’AMBIENTE

Un’altra grossa difficoltà sta nel replicare in vitro l’ambiente in cui il sangue si forma: il midollo osseo è un tessuto complesso, dove non ci sono soltanto le cellule staminali ematopoietiche, ma tanti tipi cellulari che aiutano e guidano la formazione dei diversi elementi del sangue. Inoltre, altri organi e tessuti al di fuori del midollo osseo concorrono al conferimento di competenza agli emociti. “Ad oggi, è molto difficile riprodurre fedelmente questa complessità in un laboratorio. Siamo in grado di indurre le staminali pluripotenti a differenziarsi in cellule ematopoietiche in vitro, ma non siamo certi che la cellula così ottenuta, una volta immessa nell’organismo, si comporti esattamente come il suo analogo ‘naturale’, che è stato istruito dall’ambiente circostante”, racconta il ricercatore. “Per generare dei linfociti T funzionali, ad esempio, non basta aver capito quali sono i passaggi che portano a differenziarli, ma sarà anche necessario ‘educarli’ ricreando un ambiente il più possibile fedele a quello biologico: ad esempio con un timo sintetico e con delle nicchie del midollo osseo artificiali”.

La strada da fare per capire tutto questo è ancora lunga, ma non ci lasciamo scoraggiare e continuiamo a lavorare, uno step alla volta”, prosegue Andrea Ditadi.

UN GRADINO PER VOLTA

Sono almeno trent’anni che la comunità scientifica si dedica a generare ex novo cellule staminali ematopoietiche e differenziarle in vitro. Ogni volta in laboratorio facciamo uno step in più, ma non sappiamo quanti ce ne mancano”, afferma il ricercatore dell’SR-Tiget. “Siamo partiti da una cellula staminale embrionale e, giocando con le concentrazioni di citochine (proteine che fungono da segnali di comunicazione), ora siamo capaci di farle ‘scegliere’ un primo foglietto germinativo, cioè di imporle una prima differenziazione: il mesoderma e, in particolare, la sottopopolazione relativa al tessuto ematopoietico”.

Oggi, infatti, sappiamo che il mesoderma ha al suo interno delle sottopopolazioni dedicate ai determinati organi, spesso interconnesse. In particolare, tessuto cardiaco e tessuto ematopoietico tendono ad avere una matrice comune. “È normale avere delle colture miste di cellule che possono diventare sia cardiomiociti che sangue. Riuscire a produrre quasi esclusivamente quest’ultimo, inibendo la formazione del tessuto cardiaco è stato uno dei nostri traguardi più importanti”, racconta orgoglioso Ditadi. “Tuttavia, non riusciremo mai a generare esclusivamente cellule ematopoietiche e, probabilmente, è giusto così: il sangue è un tessuto fluido e, proprio in virtù di questa sua natura, entra in contatto e viene ‘educato’ da molti altri tessuti. Produrre sangue al cento per cento potrebbe non essere possibile”.

“Insomma, un gradino per volta, siamo riusciti ad ottenere una cellula multipotente che è in grado di differenziare i tre tipi fondamentali di cellule ematopoietiche: eritroidi, linfociti e mieloidi”, spiega ancora il ricercatore. “Una volta iniettata nei topi riesce ad attecchire, ma ci rimane per troppo poco tempo. Le manca la capacità di fare autorinnovamento”.

“Pensiamo che questo sia l’ultimo gradino della scala e che possa essere importante non solo per noi e per la nostra ricerca. Infatti, se riuscissimo a capire quali sono le chiavi per l’autorinnovamento quelle stesse chiavi potrebbero essere utilizzate per altre cellule staminali ematopoietiche che già vengono utilizzate in clinica, e questo sarebbe un traguardo enorme”, conclude Andrea Ditadi.

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