Oggi si celebra la giornata mondiale sulla SLA: in questa occasione è fondamentale porre l’attenzione sulla ricerca, che vede all’orizzonte anche terapia cellulare, genica e terapie su RNA
Giugno rappresenta il mese della consapevolezza sulla sclerosi laterale amiotrofica (SLA), malattia che colpisce i motoneuroni e che causa la progressiva perdita delle funzioni motorie, fino al decesso. Obiettivo della giornata mondiale sulla SLA, che si celebra ogni 21 giugno ed è promossa dalla Federazione Internazionale delle associazioni di pazienti, è quello di sensibilizzare e aumentare le conoscenze sulla malattia. Il prof. Roberto Massa, responsabile dell’Unità Malattie Neuromuscolari presso il Policlinico Universitario Tor Vergata di Roma, fa una panoramica sullo stato dell’arte delle terapie avanzate in studio per questa malattia.
Cellule staminali e terapia genica sono diventate sinonimo di speranza per un lungo elenco di tumori e malattie rare ancora privi di una cura. Fra queste figura la sclerosi laterale amiotrofica per la quale nell’ultimo ventennio sono stati numerosi gli studi condotti sui modelli animali allo scopo di valutare l’efficacia e la fattibilità di svariati programmi di terapia cellulare. Più di recente, i ricercatori si sono orientati su protocolli di terapia genica per la correzione di alcuni geni coinvolti nella patogenesi della malattia. In aggiunta a ciò, le terapie su RNA stanno attirando l’attenzione in molti ambiti di ricerca, tra cui quello della SLA.
QUALI SONO I FATTORI CHE CAUSANO LA SLA?
La SLA è una malattia neurodegenerativa dell’adulto che conduce all’inesorabile distruzione dei motoneuroni nella corteccia motoria, nel tronco encefalico e nel midollo spinale. Questo determina un progressivo peggioramento delle funzioni motorie del malato, che perde la capacità di muoversi, alimentarsi, parlare e, in ultima istanza, anche di respirare autonomamente.
Negli anni sono state individuate mutazioni a carico di alcuni geni - SOD1, TDP-43, C9orf72, TARDBP, FUS - collegati all’insorgenza delle forme genetiche di SLA (che rappresentano fino al 10% dei casi di malattia). Ciononostante, rimangono molti interrogativi aperti relativamente ai meccanismi patogenetici che inducono la SLA: dalla formazione di aggregati di proteine, agli errori di processamento dell’RNA, al danno mitocondriale o del reticolo endoplasmatico, fino al prodursi di situazioni di stress ossidativo o di infiammazione neuronale, molti sono i fattori coinvolti nella genesi di questa patologia e non tutti hanno assunto un ruolo chiaro. Le terapie cellulari in fase di valutazione interessano alcuni di questi, divenendo così un’interessante opportunità di trovare risposte affidabili a interrogativi tuttora aperti.
STAMINALI PER LA SLA
“Non sono pochi gli studi clinici che hanno già fornito concrete evidenze della fattibilità e della sicurezza del trapianto di cellule staminali”, afferma Roberto Massa, professore associato di Neurologia presso l’Università degli Studi Tor Vergata di Roma. “La stragrande maggioranza delle tecniche di terapia cellulare studiate sfrutta un unico modello animale, quello del topo mutante SOD1 che, essendo essenzialmente un modello genetico, si presenta più omogeneo rispetto a quanto avviene normalmente nell’uomo. In pratica il modello risente meno dell’interferenza di altri geni o fattori extra-genetici e ciò rende più difficile traslare i risultati ottenuti nelle sperimentazioni cliniche sulle persone la cui malattia non è determinata direttamente dal gene SOD1”. Una prima non trascurabile difficoltà è, dunque, connaturata al modello di malattia su cui i ricercatori possono testare i nuovi approcci terapeutici e questo li sta inducendo a mettere a punto nuovi e più affinati modelli.
In una recente e completa review pubblicata sulla rivista Brain Research Bullettin un gruppo di ricercatrici italiane ha riassunto lo stato di avanzamento degli studi in corso sui modelli animali elencando le strategie di azione. “Nei numerosi trial clinici aperti si fa uso di più popolazioni di cellule staminali, ognuna con un profilo diverso dalle altre”, precisa Massa. “Le cellule staminali ematopoietiche si ottengono dal midollo osseo e dal cordone ombelicale, mentre le cellule staminali mesenchimali, che sono multipotenti e possono dare origine a più tipologie cellulari, possono essere isolate dal tessuto adiposo, dal midollo osseo o da altri tessuti dell’adulto oppure dalle membrane che formano il sacco amniotico e dalla gelatina di Wharton. Ci sono poi le cellule staminali neurali, ottenute dall’embrione e in grado di dare origine alle principali cellule del sistema nervoso. Infine, esistono le cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC) da cui si ricavano tutti i tipi cellulari”.
Nei modelli di topo SOD1 le cellule staminali ematopoietiche iniettate in vena hanno dimostrato una buona capacità di riparazione della barriera emato-midollare, cioè quella struttura che divide il flusso sanguigno dal midollo spinale e che, se danneggiata, permette il passaggio di sostanze nocive per i neuroni: il ripristino della barriera sembra consentire un rallentamento della progressione di malattia. Sempre nel modello animale, le cellule staminali mesenchimali sono state testate con buoni riscontri in termini di sicurezza e non solo: diversi studi preclinici hanno evidenziato un aumento della sopravvivenza degli esemplari trattati e un miglioramento della condizione di atrofia muscolare tipica della SLA. Inoltre, sono stati osservati notevoli abbassamenti dei livelli delle citochine pro-infiammatorie. “Sebbene in diversi studi effettuati l’impianto delle cellule staminali sia avvenuto nel sistema nervoso centrale, le nuove cellule non vanno a sostituire fisicamente quelle scomparse ma si localizzano preferenzialmente nei ventricoli cerebrali e nelle meningi”, spiega Massa. “L’azione da esse svolta è dunque di tipo indiretto. Abbassando i livelli delle citochine infiammatorie e aumentando quelli delle citochine antinfiammatorie esse svolgono un’azione che contrasta la reazione autoimmune e stimola la produzione di fattori di crescita neurali, i quali proteggono i neuroni residui ma non reintegrano quelli scomparsi”.
Se i trial sui modelli animali sono molto numerosi, quelli giunti alle fasi cliniche di sperimentazione sono decisamente di meno e utilizzano staminali di varia derivazione. In questo caso la via di somministrazione più considerata è quella dell’iniezione intratecale, mentre in pochi trial si effettua il trapianto di cellule staminali direttamente a livello del midollo spinale o del cervello. In tutti i casi l’obiettivo primario rimane la sicurezza della metodica anche se i risultati preliminari riportati da alcuni studi hanno mostrato inoltre una tendenza a rallentare la progressione di malattia. “Si tratta di protocolli di grande interesse, con alcuni tentativi in Fase I che documentano l’assenza di effetti collaterali gravi”, commenta Massa. “Di solito, nei modelli animali costruiti sulla base di una mutazione genetica nota è più facile prevedere le modalità e i tempi di presentazione della SLA, perciò, si tende a somministrare il trattamento già prima della comparsa dei sintomi. Purtroppo, la stessa cosa non si può replicare sull’uomo, soprattutto nelle forme non famigliari, anche per la mancanza di biomarcatori predittivi della comparsa di malattia.”
L’orizzonte terapeutico di questi approcci è ancora piuttosto remoto: da una parte, infatti, l’impianto delle cellule in modelli animali è preceduto da protocolli di immunosoppressione particolarmente invasivi che comportano il blocco delle reazioni cellulo-mediate del sistema immunitario e che risultano difficilmente applicabili su un individuo. Dall’altra una delle ragioni del fallimento preclinico di molti di questi studi è legato alla difficoltà di attraversare la barriera ematoencefalica e raggiungere il sito della lesione. “Sono percorsi di ricerca decisamente interessanti ma appesantiti da una serie di problematiche”, aggiunge il professore romano. “Ma la prosecuzione di questi studi sarà utile per approfondire ulteriormente alcuni meccanismi da cui origina la SLA, soprattutto nella forma sporadica.”
CORREGGERE I GENI
Infatti, come si evince da un altro articolo, pubblicato stavolta sulle pagine della rivista Nature Reviews Neurology, la terapia genica in studio per la SLA potrebbe essere rivolta in primis alle forme ereditarie di malattia. I geni SOD1, FUS e C9orf72 sembrano essere i primi e più autorevoli candidati per la progettazione e l’implementazione di questo genere di metodiche ma gli autori dell’articolo hanno concentrato la loro attenzione su cinque geni - TBK1, OPTN, NEK1, FIG4, ANG - associati alla SLA per i quali i dati in vitro e in vivo attualmente disponibili suggeriscono in modo convincente una perdita di funzione in contrapposizione ad alcune mutazioni più frequenti per le quali tale meccanismo risulta ancora oggetto di dibattito. “Svariati geni sono stati descritti in associazione alla SLA e il numero di quelli con significato patogenetico continua ad aumentare”, spiega Massa. “Inseguire l’obiettivo della singola terapia genica è fondamentale, ma lo è altrettanto anche la ricerca di un obiettivo comune nel meccanismo condiviso da diverse forme di SLA. Puntare a bersagli comuni a più forme di malattia potrebbe portare a risultati proficui”. In questo senso controllare l’autofagia, migliorare il meccanismo di funzionamento dei mitocondri e ridurre l’infiammazione può rivelarsi utile per le varie forme di SLA, anche quelle sporadiche che interessano il 90% dei pazienti.
NON DIMENTICHIAMOCI L’RNA
“Ad oggi, per un’altra malattia del motoneurone, l’atrofia muscolare spinale (SMA), sono disponibili alcuni trattamenti basati sulla modifica dell’RNA e il medesimo approccio è in fase di studio anche per la SLA”, conclude Massa. “Ma sempre per la SMA è disponibile anche una terapia genica basata su un vettore virale adeno-associato (AAV) che penetra nei neuroni portando con sé una copia normale del gene alterato. Sono fiducioso che il medesimo approccio possa essere replicato in futuro anche nella SLA senza escludere che il trattamento ottimale per una malattia complessa come questa potrebbe prevedere la combinazione di diversi approcci, sia a base di terapie avanzate che di farmaci tradizionali. È difficile pensare che una malattia così eterogenea abbia un’unica soluzione terapeutica”.