Neuroni

Le cellule staminali non sostituiscono i neuroni danneggiati, ma contribuiscono a creare un ambiente anti-infiammatorio che promuove l’autoguarigione del tessuto nervoso

Venti anni di ricerca sui modelli animali suggeriscono che le cellule staminali possono avere dei benefici contro le malattie neurodegenerative. Ma nessuno ha ancora capito bene il perché. È poco probabile che le cellule staminali sostituiscano i neuroni danneggiati o che rilascino sostanze “curative”, come si pensava all’inizio, perché la maggior parte muore dopo pochi giorni dall’infusione. Sempre più indizi sperimentali sostengono invece l’ipotesi del bioreattore: la terapia agirebbe sugli organi periferici, riprogrammando le cellule immunitarie residenti nella milza o nei polmoni per attenuare l’infiammazione cronica che è alla base delle malattie neurodegenerative e salvaguardare i neuroni. Ad approfondire l’argomento è un articolo pubblicato a gennaio su Nature Reviews.

MALATTIE NEURODEGENERATIVE E STAMINALI

Il Parkinson, l’Alzheimer, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) o la demenza frontotemporale (DFT) sono tutte malattie neurodegenerative, per cui ancora oggi non esiste una cura. I farmaci rallentano solo la progressione dei sintomi, ma non arrestano il processo neurodegenerativo, che porta alla perdita del numero o delle funzioni dei neuroni. Negli ultimi venti anni, però, la ricerca contro le malattie neurologiche ha incrociato sempre di più la strada delle terapie avanzate, che offrono strategie innovative per sostituire o rigenerare i neuroni persi.

La più affascinante è la via delle cellule staminali, cellule non ancora differenziate e in grado di specializzarsi nella maggior parte delle cellule che formano il corpo umano. Tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, pazienti affetti da malattia di Parkinson furono trattati con il primo trapianto di tessuto mesencefalico fetale per sostituire i neuroni persi e ripristinare le connessioni neurali. Dopo il trapianto, diversi pazienti mostrarono dei miglioramenti e smisero di assumere farmaci dopaminergici ma, ad oggi, una terapia efficace non è ancora arrivata

Da venti anni a questa parte, le cellule staminali hanno ripetutamente dimostrato le loro potenzialità in studi preclinici per diverse malattie neurodegenerative. Ma quale sia il loro preciso meccanismo di azione è ancora poco noto, e questo è un ostacolo alla traslazione nella ricerca clinica. Al contrario di un farmaco tradizionale, che ha un meccanismo d’azione ben definito e un bersaglio preciso, le staminali possono essere sono considerate dei farmaci “vivi” e si comportano in maniera complessa: possono influenzare diversi processi fisiologici contemporaneamente e interagire con altre cellule, organi e tessuti.

SOSTITUZIONE DEI NEURONI PERSI

Gli autori dell’articolo pubblicato su Nature Reviews hanno formulato una serie di ipotesi per spiegare i risultati sperimentali. La prima è che le cellule sarebbero in grado di attecchire nel nuovo organismo e differenziarsi in neuroni maturi, sostituendo quelli persi e danneggiati. Diversi studi condotti nei modelli animali e negli esseri umani hanno però dimostrato che le cellule trapiantate non sopravvivono più a lungo di due settimane nel nuovo organismo. Le poche che attecchiscono, inoltre, non sembrano in grado di formare neuroni maturi né di integrarsi nei circuiti neuronali esistenti.

SECREZIONE PARACRINA

Il secondo meccanismo è la secrezione paracrina (ossia con effetto locale) di fattori di crescita e citochine che stimolerebbero il tessuto neuronale ad auto-ripararsi. Anche questo, però, manca di solide conferme sperimentali. Ad oggi nessuno studio ha dimostrato che le cellule infuse sono in grado di secernere questi fattori in una quantità biologicamente rilevante: anzi, i risultati indicano che la percentuale di attecchimento dovrebbe essere almeno 200-900 volte maggiore di quella osservata per avere un effetto.

LA TERZA IPOTESI: IL BIOREATTORE

Esiste anche una terza proposta, ribattezzata come “ipotesi del bioreattore” nell’articolo di Nature Reviews, che è più recente ma già avvalorata da alcuni indizi sperimentali. A differenza delle altre due, questa sostiene che le cellule staminali non avrebbero effetto direttamente sui neuroni: agirebbero invece su organi secondari, come i polmoni o la milza, riducendo l’infiammazione.

L’infiammazione è una risposta dell’organismo quando viene attaccato o ferito, ma se è prolungata o sfugge al controllo del sistema immunitario, può provocare dei danni a tessuti e organi. Nelle malattie neurodegenerative, l’infiammazione gioca un ruolo critico. Patologie come l’Alzheimer, il Parkinson, la sclerosi multipla o la Huntington hanno un aspetto in comune: uno stato infiammatorio cronico e prolungato. Queste risposte infiammatorie persistenti colpiscono principalmente le cellule del sistema nervoso, come microglia e astrociti, che sono le responsabili della protezione e del nutrimento dei neuroni.

GLI INDIZI SPERIMENTALI

Gli studi di biodistribuzione hanno dimostrato che le cellule che vengono infuse per via sistemica non vanno tutte nel cervello, anzi la maggior parte si localizza in organi secondari come i polmoni, la milza e altri tessuti linfoidi. La terapia cellulare sarebbe quindi in grado di interagire con le cellule immunitarie residenti in questi tessuti e “riprogrammarle” verso uno stato antinfiammatorio, con un meccanismo ancora da decifrare. Le cellule riprogrammate migrerebbero poi nel cervello, dove riuscirebbero a creare un ambiente favorevole alla rigenerazione dei neuroni.

Il risultato è un generale abbassamento dei livelli di infiammazione: nel cervello aumentano le cellule T regolatorie (con funzioni antinfiammatorie) e le cellule della microglia smettono di produrre segnali pro-infiammatori e iniziano a rilasciare molecole che hanno la funzione opposta, cioè di sopprimere l’infiammazione.

Le terapie cellulari sembrano interagire anche con le cellule endoteliali che ricoprono i vasi sanguigni: aumentano la secrezione degli inibitori delle metalloproteinasi, che mantengono integra la barriera ematoencefalica, e riducono il reclutamento delle cellule immunitarie responsabili dell’infiammazione.

UN CAMBIO DI PARADIGMA

La terapia cellulare si comporterebbe, quindi, come un interruttore: le staminali entrano nel sistema e riprogrammano le cellule immunitarie e vascolari nella milza, nei polmoni e in altri organi periferici, come se durante un incendio qualcuno persuadesse i piromani ad abbandonare gli accendini per imbracciare dei secchi d’acqua. Questo abbassamento dei livelli di infiammazione ha dei benefici sul cervello, sull’integrità della barriera ematoencefalica e sulla rimielinizzazione dei neuroni. L’ipotesi del bioreattore potrebbe guidare la medicina rigenerativa verso nuove terapie, disegnate per sfruttare al massimo i benefici delle cellule riprogrammate sulla salute del cervello.

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